III domenica di Avvento

Is 45,1-8; Sal 125; Rm 9,1-5; Lc 7,18-28

Il racconto del Vangelo ci ricorda che c’è una resistenza istintiva alla rivelazione di Gesù. Anche Giovanni, che era certamente uomo di fede, un profeta, ha tuttavia anche lui un memento di dubbio, sorge anche per lui una domanda circa questo Gesù. La resistenza al vangelo non è dunque solo di uomini “cattivi”, ma riguarda i farisei, come i discepoli, come Giovanni. Dobbiamo allora aspettarci che in questa istintiva fatica a credere a Gesù Cristo si riveli qualcosa di importante. Non a caso, Gesù dedica un’ulteriore beatitudine per chi riesce a superare questa innata fatica: “Beato colui che non trova in me motivo di scandalo”. C’è dunque qualcosa di “scandaloso” che non dobbiamo dare per scontato.

Dove si radica questa fatica? Nel fatto che Cristo non corrisponde pienamente alle attese di Giovanni. Per noi significa che Cristo non corrisponde pienamente alla nostra idea naturale su Dio, alla nostra immagine spontanea del Sacro. Se ci pensiamo, il nostro approccio più naturale al sacro o al religioso si alimenta sempre a una ambiguità del vivere: speso a una paura o a una angoscia. Là dove noi non controlliamo le cose, dove ci nasce un figlio, dove siamo prossimi a un esame, dove c’è la paura per qualcosa che inizia, allora “l’invocazione” a un Dio nasce spontanea. Sembrerebbe a volte che tanto più l’uomo è afflitto quanto più ha bisogno di Dio.

L’immagine di Dio è dunque spontaneamente associata a una ambiguità. “Costui che ha ridato la vista a un cieco non poteva fare anche in modo che questi non morisse” è la frase del vangelo che sintetizza questa ambiguità sul volere di Dio. Diremmo che il sistema religioso (le abitudini religiose) tendono sempre ad addomesticare questo rapporto ambiguo con il sacro, con il destino.

Gesù non corrisponde a questa immagine così ambigua su Dio. La sua volontà è assolutamente univoca: il bene e la salvezza dell’uomo, di tutti e senza ma e senza se. Se ci pensate questo scardina il senso religioso che invece si alimenta a quella ambiguità: “perché sprecate parole cercando di tirarvi dalla vostra parte Dio, Dio sa già ciò di cui avete bisogno” — ricorda Gesù insegnando a pregare. Questa è la fine (scandalosa) di una certa religiosità.

Questo significa per esempio che Dio non deve mai essere difeso. Non c’è una causa di Dio da difendere davanti agli uomini. Ogni volta che l’uomo ha fatto le cose per difendere Dio ha generato guerre. Lo si vede ancora oggi, che siano Islamici o Cattolici, dove si difendono gli interessi di Dio si uccide o si creano barrire. Invece, la causa di Dio coincide con la causa degli uomini. Cosa risponde Gesù in questa vangelo? “Guardate la vita degli uomini come è risanata!”. A questo dobbiamo essere interessati: che la vita degli uomini sia risanata e non di difendere una religione o un Dio. Detto in altri termini: Dio non è un narcisista e non ha problemi di narcisismo (come invece noi) né mira a difendersi dalla dimenticanza degli uomini. Noi siamo spesso affannati da questa preoccupazione: difendere Dio e la religione davanti ai figli, agli islamici, agli atei… invece Dio ha un’altra preoccupazione: è tutto proteso alla causa degli uomini. Gli basta questo.

C’è un racconto molto bello di un grande scrittore francese, Guy de Maupassant, che sintetizza bene questo “spaesamento” che si genera quando si smette di essere uomini religiosi (con i nostri schemi e abitudini su Dio) per capire la bellezza della novità cristiana che invece non ha templi sacri da difendere.

E’ la storia di un prete, non un cattivo prete, un prete di grande fede, che aveva capito tutto sul perché delle cose. Per lui Dio era la risposta ad ogni suo perché. Aveva capito perché c’era la notte (per dormire), il giorno (per lavorare), l’alba (per allietare il risveglio), le stagioni ecc.
Così Dio si ergeva, nel suo schemino religioso, a garante del perché delle cose. Tuttavia, questo prete ha una nipote che nel suo schemino avrebbe dovuto diventare suora e che invece si innamora. E questo fatto lo fa imbestialire: Dio, e tutto il senso delle cose, vanno difesi e occorre nel suo progetto che questa nipote diventi suora. Ma lei invece è innamorata e così una notte quel prete, non credendo sia davvero così, esce per andare a vedere questi amanti nel boschetto, vicino al lago.
Ma appena uscito vede una notte bellissima, con una stellata stupenda (qui bisognerebbe leggere) e una luna meravigliosa che gli mette i brividi. E si genera in lui una domanda: “come mai Dio, che ha fatto la notte per dormire, tuttavia l’ha fatta così bella?”. Qualcosa del suo schemino religioso viene meno. E quando vede avvicinarsi i due amanti pensa di capire e dice tra sé: «Forse Dio ha creato queste notti per velare con l’ideale gli amori degli uomini». Ma si inganna, si sente intimorito. Gli fa paura che la causa di Dio sia la sola felicità degli uomini e scappa. Peccato! perché scappa dimenticando che invece quella notte era lì proprio anche per lui, non era per gli innamorati (che si spera dediti ad altro quella notte) ma proprio per lui e per la sua felicità. Dio, più di tutti, era preoccupato di questo.

Chi capisce questa novità cristiana, che la causa di Dio è solo la felicità degli uomini o –detto altrimenti– che la bellezza di quel plenilunio era proprio un regalo per te, anche se non sarà un grande uomo religioso sarà il più grande nel regno dei cieli.