III Domenica di Avvento

Domenica scorsa il Vangelo ci spingeva a riflettere sulla necessità di un cammino nella vita dell’uomo. In altri termini è quello che direi con l’espressione: uscire dall’immediatezza. Perché è necessario “uscire dall’immediatezza”? Perché in essa accade quello che descrive questo vangelo: “per poco tempo vi siete rischiarati alla sua luce”, oppure “la parola non rimane dentro di voi” esorta Gesù. L’emozione che vive di immediatezza tanto rapidamente nasce quanto rapidamente muore, non genera storia né sensibilità umana.

L’immediatezza dalla quale imparare a uscire ha infinite forme. Dal “si è sempre fatto così” che sembra la regola di ogni parrocchia, alla spontaneità con la quale si governano i figli mossi più dai rimorsi di essere sempre a lavoro che dall’assunzione di una educazione pedagogica. L’immediatezza è anche l’andare a messa per la pura tradizione di andarci senza l’ombra di una domanda, di un dubbio, di una testimonianza da dare anche fuori… L’immediatezza è questa scena alla quale mi è capitato di assistere durante le benedizioni: un ragazzo sdraiato sul divano preso dall’emozione del suo videogioco, con una madre distrutta dal lavoro che fa da mangiare, apparecchia, accudisce il figlio più piccolo… totalmente assente agli occhi del ragazzo che gioca. Insensibile a null’altro se non alle emozioni adrenaliniche di quell’istante, di quella partita da vincere.
Passare tutto il proprio tempo libero davanti a un videogioco non è un male, semplicemente non aiuterà mai il nostro lato umano ad avere sensibilità, a cogliere quei luoghi dove si rivela la vita e l’umanità, in tutta la loro drammatica. Eppure, sono convinto che sia solo dentro questa sensibilità non immediata che “si vede Dio”, si coglie dove pulsa la vita, ci si ferma ad “ascoltare una voce” –per citare il Vangelo.
In questo senso, uscire dall’immediatezza prima che essere un’opera della propria conversione è anzitutto un’opera della propria umanizzazione. Il silenzio, la lettura, la sensibilità alla vita non sono luoghi anzitutto dove si diventa cristiani, ma in prima battuta, dove si diventa semplicemente uomini veri, affascinanti. E Cristo appare in ciascuno di noi solo sulla strada di questa vera umanità. Per questo Gesù fa davvero il rabbi, il maestro!

Per questo, ad ogni età della vita, occorre cogliere le nostre immediatezze istintive e imparare a cambiarle, farle diventare un logo di conversione. “So che farei così”, che “risponderei così”, ma cosa è giusto? Cristo cosa avrebbe fatto? Questa resta la grande domanda per chi vuole vivere l’autenticità della sua vita ed ha ancora energie per non rassegnarsi.

C’è un secondo aspetto interessante di questo Vangelo e della prima lettura. Come si esce dalla propria immediatezza? Perché se prendiamo sul serio noi stessi, in modo non rassegnato, ci chiediamo anche il perché di tanta fatica, il perché di non accontentarsi. Il vangelo ci ricorda che l’unica risposta a questa domanda sta nel fascino di chi ci ha preceduto. Non è un moralismo, ma una testimonianza, una risposta che si intravede nella vita di qualcuno e che ci appare affascinante, promettente, bella!
“Considerate la roccia dalla quale siete stati estratti, la cava dalla quale venite” dice Isaia. Ritornare alla tradizione che ci viene affidata, alla grandezza di chi per noi si è speso e ci ha insegnato la fede (la grandezza del Battista) è condizione senza la quale non si può iniziare questo cammino.

Invito a prendere sul serio la tradizione che ci è stata trasmessa e l’onestà dei nostri genitori o di chi ci ha generato alla fede. Dice un saggio detto: non si è in grado di generare (di fare figli davvero) se non si sa di essere generati. Noi troppo superficialmente, in questi ultimi anni, abbiamo buttato via la vita onesta, laboriosa, autentica, cristiana delle generazioni che ci hanno precedute, senza essere stati in grado di sostituirla con nulla. Per contrappasso ora ci troviamo sterili, con pochi figli. Non è un caso. “Considerate la roccia dalla quale venite” non è un ritorno nostalgico al passato, ma la consapevolezza che non costruiamo mai a partire dal nulla e che prima di allontanarci del tutto da ciò che ci ha generato (come occidente, come popolo, come singoli) dovremo vagliarlo per bene e magari non operare questa scelta appunto presi dalla nostra immediatezza.

Kafka, in un breve racconto dal titolo “Il ritorno”, descrive la nostalgia che si genera in chi non ha il coraggio di “rientrare nella casa del padre”, ma si ferma oltre il vetro della porta di casa, senza prendere mai sul serio nessuna tradizione che riceve, senza scegliere davvero. E’ davvero un dolore (nostalgia significa questo) malinconico ed è certamente prodotto da quella immediatezza spontanea e passeggera, che non ci permette mai davvero di impegnarci con la realtà, di essere noi stessi.