II Domenica dopo Pentecoste

Sir 18,1-12; Sal 135; Rm 8,18-25; Mt 6,25-33

C’è una buona notizia che traspare da questo Vangelo e non è necessario essere preti o teologi per vederla. Essa è la strada per la liberazione da un’ansia e da un affanno della vita che tutti abbiamo provato qualche volta. E’ la sensazione di non essere all’altezza delle aspettative, è il timore per un futuro incerto, è la corsa delle mille cose da fare nel quotidiano. La buona notizia è una alternativa a vivere così.

Eppure, a essere onesti, accanto a questa buona notizia sorgono dentro di noi anche tante obbiezioni. Non è da ingenui non preoccuparsi per il domani? Come non preoccuparsi? L’esperienza ci dice che la preoccupazione è anche un sinonimo di cura e di impegno.
E poi, Gesù sarebbe contraddetto da ogni “passero affamato” e da ogni uomo in difficoltà. Ecco il sospetto: il testo è sì affascinante, ma anche stroppo semplice e ingenuo? San Paolo, un uomo pratico e concreto scrive invece: “chi non lavora, neppure mangi” e anche il libro della Genesi, quando racconta l’operato di Giuseppe per affrontare i sette anni di carestia, sembra molto più equilibrato sul tema della “preoccupazione”.

Allora potremmo difendere il testo e la nostra speranza iniziale in due modi. Potremmo sottolineare la futilità e la caducità delle nostre preoccupazioni terrene (il vestito, il cibo) in relazione alla vita. Ma questa strada ha un rischio: sembrerebbe che nulla sia più importante. Invece la nostra vita è fatta di vestiti, di cibo, di case, di voti… La vita in sé, potremmo obbiettare, non esiste, ma esiste solo la vita vissuta in quella casa lì, con quel vestito lì, con quei compiti lì ecc.

Un secondo modo è quello di accentuare la parola “preoccupazione” e il testo sarebbe ridotto a dire: “preoccupati un po’ sì, ma non troppo”, perché altrimenti ti rovini la vita. Eppure anche questa seconda lettura mi sembra superficiale: ci sarebbe bisogno del vangelo per affermare questo? non è solo questa una regola pratica di buon senso?

Il Vangelo di Gesù non mi sembra sia questione di buon senso (non preoccuparsi troppo) né questione di svalutare il nostro agire e le cose materiali (come tante volte è stata fatto in una falsa spiritualità). Chi non ha desideri? Chi non desidera qualcosa per sé o per gli altri?

Eppure, è altrettanto vero, il desiderio può diventare un incubo e la vita un inseguire fantasmi.
Lo racconta in modo stupendo la fiaba di Pinocchio (e molte altre fiabe che colgono qualcosa di vero nell’umano): nella fiaba ci sono gli uomini ma ci sono anche i ciuchini: animali da soma che passano una vita a lavorare senza un perché. La notizia è che pochi diventano uomini e molti sono destinati a restare ciuchini.

Cosa fa la differenza tra gli uomini e i ciuchini? Lo dice il Vangelo: cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia. Questo “prima” fa tutta la differenza. Non è questione che il vestito o il cibo non siano importanti, ma è questione di un prima, cioè di un fondamento, di un ordine, di un senso. E’ questione, dunque, di sapere collegare il vestito, la macchina, lo studio… alla vita, a quello che sono.

Ma come si può collegare la macchina, i voti, i soldi… alla vita tutta? Come si può collegare la borsetta, la maglietta, al corpo tutto, che significa quello che sono io per intero?
Soltanto se uno ha trovato un “prima”, cioè un fondamento, cioè quell’ipotesi sulla vita che mi permette di vivere senza ansia. Questa ipotesi è la nostra relazione con Dio, ovvero l’unico orizzonte dentro il quale ogni cosa viene dopo e in essa si può collocare.

Attenzione: quando uno non trova questo fondamento buono, sopravvaluta sempre il suo oggi e i suoi beni caricandoli di una aspettativa a cui essi non potranno mai corrispondere. Questo accade quando il sogno, il desiderio di qualcosa, diventa nell’anima un fantasma, un affanno, la Bibbia direbbe “un idolo”.
Invece, quando ogni cosa si colloca nella nostra relazione più grande che davvero ci tiene in vita, allora anche gli insuccessi non diventano incubi e i successi non si trasformano in orgoglio sfrenato.

Scrive E. Hillesum nelle sue lettere durante la seconda Guerra Mondiale: “Ogni sera, con una certa pace di spirito, io depongo le mie molte preoccupazioni terrene ai piedi di Dio stesso. Sono preoccupazioni molto banali – ad esempio – come devo fare con il bucato della famiglia, ecc… Le grandi preoccupazioni non sono assolutamente più tali – sono già diventate un destino in cui ci si è integrati.”

Cosa ho capito in questi anni di insegnamento a scuola? Che insegnare non significa spiegare delle cose, ma introdurre alla “realtà tutta”. Si può introdurre alla realtà tutta (dunque alla vita) solo se si ha trovato un fondamento, un prima, alla nostra vita stessa. Questo fondamento dell’insegnamento è la nostra buona relazione con il Padre.

Senza questo, non si educa davvero, ma soltanto si insegna a fare i ciuchini. Invece qui qualcuno mi ha testimoniato che c’è un’altra via possibile e che quella buona notizia che intravedevo all’inizio in questo Vangelo è una speranza vera, è un “prima”, è un fondamento che qualcuno ha trovato davvero.