II domenica dopo l’Epifania

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Vorrei commentare una frase dell’inno agli Efesini di Paolo. Il testo è ricco e complesso; forse rischia di essere ascoltato come retorico se non prestiamo una qualche attenzione al suo contenuto. Paolo disegna un grande arco dall’origine al compimento e in esso pone al centro l’incontro con Cristo. Quando parliamo di religione, spesso discutiamo del “dopo la morte”, del destino che ci attende, del futuro. Paolo ricollega il futuro, il compimento, il Paradiso… all’origine, al “da dove veniamo”. Vorrei commentare una frase sull’origine.

Scrive Paolo: Dio “ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi…”. Dietro questa frase non c’è tanto la questione di una predestinazione intesa come la “fortuna” di pochi che Dio avrebbe scelto predestinandoli a qualcosa ed escludendo gli altri. Per Paolo è chiaro che Dio ha scelto ciascuno di noi: tutti siamo scelti da Dio prima della creazione per essere santi. La domanda è invece diversa: “noi abbiamo una origine comune, una comune elezione nella mente di Dio, ed esistiamo su questa terra con uno scopo, ovvero per essere santi”.

Questa affermazione è tutt’altro che scontata. Siamo abituati a pensare a noi stessi come frutto del caso, come il prodotto di un ovulo e uno spermatozoo, come cellule messe assieme e prodotte da sé stesse. Il mondo e gli altri li vediamo come aggregati neutri di atomi, le vite come vite neutre che non hanno il loro stesse uno scopo o un senso. Al contrario: l’uomo è arbitro del suo destino, è lui a decidere che scopo darsi. Viene dal nulla e non ha alcun “cuore” o alcuna “natura” preordinata a qualcosa. Sono al più le culture e le tradizioni del tempo che vive a suggerirgli qualche scopo per vivere.

Tutto diverso è il pensiero cristiano. Non veniamo dal caso ma da Dio e abbiamo una natura umana che ci accomuna tutti, che ci ha tutti quanti “scelti” e che possiamo tradire o rispettare. Esiste nel cuore dell’uomo la traccia di questa “elezione prima della creazione del mondo”. Esiste un modo per realizzare la propria natura ed essere santi (quindi felici) e un modo per tradire la propria vocazione e diventare persone autentiche.

Per citare un filosofo, tra essere e dover essere, tra il semplice esistere e respirare e un’etica non c’è uno iato incolmabile, ma la natura stessa della vita possiede una direzione e uno scopo, come nel suo DNA. Questo pensiero è l’opposto del pensiero relativista moderno. Noi diciamo non solo che le perone possono sbagliare o farsi del male, ma che possono tradire la propria vocazione, possono “perdersi”. Un ragazzo che inizia a drogarsi non è solo un ragazzo che ha scelto autonomamente una strada ma è un ragazzo che si sta perdendo, che tradisce la sua natura di uomo. Una persona che non impara ad amare gli altri o a voler bene è come se tradisse una legge universale della vita, una legge che ci accomuna tutti che è come il segno di questa antichissima elezione.

Una amico che insegna letteratura mi ha spiegato una cosa importante: perché alcuni testi di letteratura vengono definiti dei “classici”. Cosa è un classico? Un classico, mi spiegava, è un testo nel quale è possibile distinguere due livelli: da una parte la particolare cultura ambiente dentro il quale quel testo è nato (il mondo greco o il romanticismo europeo…), dall’altra le domande universali e sempre vere che il testo possiede, le questioni che attraversano da sempre l’umanità. Un classico è un testo che fa emergere il suo essere “fuori” dal tempo particolare nel quale è scritto perché ripropone questioni sempre vere.

Pensavo: se Paolo non avesse in qualche modo ragione non ci sarebbero i “classici”. In fondo, il classici esistono, in letteratura come in arte, perché riconosciamo che alcune questioni ci attraversano da sempre, sono un universale denominatore comune. Quasi la traccia di una elezione comune, qualcosa di particolare che alberga nel cuore di tutti “fin prima della creazione del mondo”.