II domenica dopo la dedicazione

Link alle letture

La parabola del Vangelo ne ricorda molto un’altra: quella della zizzania che cresce insieme al grano buono. Come spesso accade nella predicazione, per esprimere un concetto Gesù ricorre a immagini diverse, come la pesca o la semina. Chi si intende di reti sa che non è possibile pescare subito i pesci buoni, ma bisogna farlo alla fine, quando si è a riva. Così per la semina, non si può da un campo sradicare le erbacce senza portare danno alla semente buona. Questa sapienza popolare dell’antico agricoltore o pescatore sono usate da Gesù come immagini per indicare come avviene l’esperienza di Dio (o del Regno) nella vita degli uomini.

Detto in altri termini, per vivere legami buoni (con la moglie, il marito, la ragazza, gli amici, i colleghi…) dove si voglia sperimentare la presenza di Dio è indispensabile “rimandare” a Dio l’opera della separazione tra “buoni” e “cattivi”. In sostanza, ricordarsi che noi non siamo Dio e viviamo in un impasto di “buoni” e “cattivi” che non spetta a noi risolvere. Questo è ciò che permette il nascere di legami belli dove si sperimenta Dio.

Faccio un esempio. Conosco diverse coppie dove spesso compare questo problema (un problema che si presenta in tantissime relazioni umane, p.e. tra genitori e figli): uno vede una determinata cosa in un certo modo e l’altro la vede nel modo opposto. Pur, a volte, cosa apparentemente strana, avendo già passato molto tempo assieme, conoscendosi bene e volendosi sinceramente bene. Eppure, su alcune cose non ci si intende e della stessa cosa si riportano esperienze opposte. Se una persona esterna alla coppia ascoltasse il primo gli darebbe ragione, ma se poi ascoltasse il secondo a volte darebbe ragione pure al secondo… Non sempre, in sostanza, si può redimere la questione e spesso le persone arrivano allo scontro. Capita poi che una delle due parti “ceda” alla visione dell’altro, oppure si ritragga in silenzio, oppure conservi molto rancore per il fatto di non aver avuto ragione.
Quello che ho capito da queste esperienze talvolta drammatiche è che “non è sempre possibile sapere chi ha ragione” (non siamo Dio) però non è neanche la cosa più importante. Molte volte facciamo coincidere “l’avere ragione” con la verità, quando semplicemente avremmo bisogno di essere capiti –cosa non sempre identica ad “avere ragione”. In effetti, le cose di solito migliorano non quando uno dei due “cede” magari conservando rancore verso l’altro (questa non è l’esperienza del Regno), ma quando uno dei due smette di essere preoccupato di “chi ha ragione” o di “convincere l’altro” e si preoccupa di “come sta” l’altra persona o di cosa “vive” l’altro per dire ciò che dice. Potrà non condividere la posizione finale, ma sentirà benissimo cosa sta provando. Spesso questo è quello che fa la differenza: non tanto che gli si dia ragione o meno, ma che lo si capisca.
Le relazioni dove questa cosa avviene, ovvero dove c’è l’umiltà di non essere Dio e di non giudicare l’altro, spesso sono quelle che riescono a tenere di più e a superare le prove, senza accumulare dosi sempre più grandi di rassegnazione. Spesso sono le relazioni dove uno è più felice, fa esperienza della tenuta e della bellezza di una amicizia o di un amore, ed è l’esperienza del Regno. Gesù ci indica non solo la meta, ma anche la strada.

Il giudizio finale su noi stessi spetterà poi a Dio. Potrebbe fare timore quanto viene descritto nel vangelo. Oggi non esiste più una predicazione che metta paura, invocando una punizione divina dell’inferno e per molti aspetti possiamo dire “meno male”, perché quella paura può davvero rovinare la vita o può essere usata come strumento di potere e di controllo. Però, dobbiamo anche chiederci se la paura di un “giudizio” o la paura delle conseguenze di ciò che di male possiamo fare o non fare… sia davvero solo qualcosa di negativo. Il relativismo moderno tende a dire che tutto è uguale, tutto è culturale, tutto va bene… al tempo stesso, quando si perde di vista il “lavoro che il bene chiede”, i desideri diventano sempre più sogni e la realtà sempre più una cosa dura da sopportare.
Invece, se io sono nato è perché qualcuno ha lavorato per il bene e in mondo oggi sta in piedi (letteralmente) solo grazie a quei milioni di uomini e donne che metto al mondo figli, li educano e “fanno il bene”, altrimenti finiremmo a sbranarci l’un l’altro in una guerra. La paura che la verità emerga, che verrà a galla, è anche ciò che ci spinge a credere in una giustizia e a lavorare per il bene, senza scoraggiarci. Ricordo un ragazzo che ha passato un brutto momento di depressione, pensando più volte al suicidio. Mi diceva una volta molto semplicemente: la paura di finire all’inferno mi ha spesso trattenuto dal compiere quel gesto così folle. Perché non possiamo dire che la paura non è soltanto qualcosa da eliminare e che “disturba” la serenità della vita, ma che può essere anch’essa uno strumento buono della vita e dell’educazione? Certo, purché sia usata per il bene. Non torneremo più a predicare “lo stridore di denti” e le “fiamme dell’inferno” per incutere timore, però in ogni caso dovremo continuare a predicare che nulla finisce in nulla e la verità verrà a galla, anche a costo di essere anacronistici nel ricordare che la vita non è soltanto un gioco.