II domenica dopo il martirio

Is 5,1-7; Sal 79; Gal 2,15-20; Mt 21,28-32

Si è soliti pensare alla questione della fede come questione del credere: credo o non credo in Dio. E’ un modo di pensare diffuso, tant’è vero che per i ragazzi sembra essere la questione dirimente della religione. Sei religioso se credi in Dio, non lo sei se non ci credi. Al più poi si aggiunge un oggetto più specifico o la questione del praticante (“credente più o meno praticante”).

E’ interessante che per il Vangelo la questione si pone diversamente. Non solo perché per esso non avrebbe senso parlare di un “credente non praticante”, ma perché –più radicalmente– la questione della fede non è semplicemente la questione del credere o meno in Dio.
Il Vangelo di oggi e la prima lettura ricordano che questione della fede è questione della conversione. Come se, credere in Dio, nei Santi e nella Madonna, non fosse davvero ancora decisivo se non a partire da uno scarto, da una differenza che deve incominciare a essere percepita: la differenza tra quello che “spontaneamente farei” o “penserei” e quello che il Vangelo insegna e chiede. E’ a partire da questo scarto, lo scarto tra quello che sono e ciò al quale sono chiamato, tra quello che faccio e quello che sarebbe giusto fare… a partire da questo scarto percepisco (e a volte patisco) una relazione che è anche un credo, un affidamento, una fede.

E’ quello che racconta il Vangelo. “Non ne ho voglia, ma poi si pentì e vi andò”. Questo movimento è il movimento continuo del credere cristiano, forse fino all’ultimo giorno della vita. In questo senso non c’è credente cristiano che lo sia sempre stato allo stesso modo. Chi vive una vita spirituale lo sa: la vita spirituale non è sempre identica ma è fatta di momenti dove si è arrabbiati, distanti, dove si soffre anche la nostalgia, dove si è stanchi oppure, viceversa, nei quali ci si sente più vicini al Signore.
Se è vero questo, non c’è uomo di fede che non sia un uomo che sempre “si pente”, “sempre si converte” e il proprio punto di partenza (sacerdote, casalinga, impiegato o prostituta) non è davvero importante.

La cosa straordinaria di questo movimento resta per me il fatto che non c’è vergogna. La conversione avviene attraverso una visione di sé privata del muro che genera la vergogna. E’ come se la vergogna venisse meno e ci si potesse riconoscere per quello che si è, senza però “accettarsi” e basta per quello che si è –come si è soliti dire oggi e lasciando intravvedere che in fondo la mediocrità ci piace e il lamentarci di noi e degli altri è ciò che ci fa stare bene.
Accade invece quello che accade nella scena finale del vangelo di Giovanni. Gesù insiste tre volte con Pietro a chiedergli conto della sua amicizia (e del suo tradimento), fino a quando Pietro non ce la fa più e dice, quasi sbottando: “Signore tu sai tutto, tu sai come ti voglio bene”. Quel groviglio del cuore nel quale rimango non lo nascondo a me stesso e a te, e non lo accetto passivamente, ma ti dico cosa è…
La domanda di Dio nella pagina di Isaia rimane questa: cosa devo fare io perché tu te ne accorga, perché tu venga scosso e possa guardare ciò del quale sei fatto? Quale incontro deve accadere perché uno possa scoprire la sua inquietudine?

E’ quello che aveva capito Manzoni e lo racconta in modo eccezionale in quella pagina bellissima della conversione dell’innominato. L’innominato è un uomo che ha tutto (la posizione del suo castello che domina è metafora di questo potere illimitato), ma a un certo punto “viene visitato” da una ragazzina che ovviamente non è “più potente di lui” (il potere non si sconfigge con più potere), ma l’opposto di lui: “donna, indifesa, un po’ piagnucolona, impaurita ecc.”. E quando si ritira nella sua camera, dopo essersi spogliato, inizia a pensare al suo passato e pensa alle scelleratezze commesse, ma anche al fatto (interessante!) che quando le commetteva non gli sembravano tali. E improvvisamente non riesce più a dormire. E pensa allora di scappare, ma sa dell’impossibilità di andarsene. Manzoni usa una espressione bellissima e dice: sapeva che ovunque sarebbe andato sarebbe sempre rimasto in compagnia di sé stesso.

E quando, due capitoli dopo, l’innominato porrà al cardinal Borromeo la questione del credere –dice al prelato: “Dio, Dio, sempre Dio! L’avessi visto questo Dio che voi dite”. Ecco la risposta che definisce la fede: “chi più di voi lo ha accanto e vi inquieta e al tempo stesso vi attira…”. Credere è sempre un ritornare a convertirsi che tu sia come uno dei personaggi di Manzoni, o come uno dei protagonisti del Vangelo.