II domenica dopo il martirio

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C’è un antefatto a questo vangelo che spiega il tono polemico di Gesù. Il Signore era entrato a Gerusalemme per una festa e si era fermato alle soglia di una porta della città, nei presi di una grande piscina. Era un logo di via vai di molta gente, potremmo immaginarcelo come passare oggi in stazione centrale a Milano (fatte le debite proporzioni). Uno di quei posti dove ci sono tutti: gente che passa, ricchi, senza tetto, ammalati, truffatori… e molta povertà. Una povertà alla quale molti si saranno abituati, come noi oggi. Passi da quella porta per andare al mercato, per raggiungere una festa e non ti fermi… come nelle nostre stazioni, non guardi bene chi c’è. Gesù invece si ferma e vede un uomo che da trentotto anni era paralizzato su un lettuccio. Uno dei tanti poveri di quel posto. Gesù gli fa una domanda, una domanda strana: “vuoi guarire?”. Parrà strano, ma chi ha a che fare con molti ammalati e poveri, chi frequenta oggi le stazioni dove essi soggiornano, sa bene che molti si non solo non possono, ma spesso non vogliono cambiare. Chi è ammalato o chi è povero può passare la vita a lamentarsi, ma non sempre vuole realmente cambiare. Altre volte, succede che la rassegnazione prende così tanto il sopravvento da far abbandonare ogni sogno di una vita migliore.

Gesù guarisce questo paralitico che “non aveva nessuno” che lo aiutasse, ma aveva mantenuto vivo il desiderio di guarire. Lui prende il lettuccio e se ne va. Ma il Vangelo dice che era sabato quel giorno e i giudei non permettevano che si camminasse con il lettuccio proprio di sabato e lo ammoniscono. L’uomo risponde: “me lo ha comandato chi mi ha guarito”. “Chi è?” Chiedono. “Non lo so”. Ma il paralitico rincontra Gesù al tempio e lo riconosce. Allora il Signore viene accusato di aver guarito di sabato. Da qui nasce la polemica della pagina di oggi.

Cosa è questa questione del sabato? Potrebbe sembrare non ci interessi. Invece, è la solita questione che il fare del bene scardina sempre delle regole di un sistema ordinato sociale o personale. Il ragazzo che deve decidersi ad andare a trovare la nonna allo ospizio sa che deve scardinare la sua routine che alla domenica dove alla domenica esce con gli amici o studia. Chi vuole aiutare il barbone sotto casa deve farlo scardinando la regola del suo “sabato” dove è abituato ad andare oltre.

Anche socialmente abbiamo le nostre regole del sabato. Infondo, la ricchezza mia, per quanto innocente, è spesso la povertà di un altro e queste divisioni devono essere conservate in una società, costi quello che costi. In India le “caste” sociali sono tenute e conservate come una legge e un bene perché in una città di 10 milioni di abitanti, non tutti possono avere l’acqua potabile. Se vogliamo fare del bene, dobbiamo andare contro la burocrazia (da noi), contro le regole della divisione sociale, contro la nostra routine… sono tutte le nostre leggi del “sabato”. Ma una legge non fa il bene, neanche quando non lo ostacola. Gesù lo dice: se rimanete solo attaccati alle leggi non conoscerete mai Dio.

La polemica tuttavia ha una seconda questione. E’ come se Gesù si domandasse: perché accade questo tra gli uomini? Perché accade che guarire dia fastidio, costi un prezzo? E la risposta è per lui semplice: perché hanno più a cuore la gloria tra gli uomini che quella che viene dall’unico Dio (“voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio”). A duemila anni di distanza la questione resta la stessa. Il nostro bisogno di riconoscimento sociale è davvero il metro del nostro agire? Non è questo un inganno?

Chiediamoci cosa vogliamo dai nostri figli? Il loro riconoscimento sociale? Chi abbiano una bella moglie, che sappiano bene l’inglese, che facciano una prestigiosa università e trovino poi un bel lavoro? Sarebbe questo a fare un vero uomo? Direi che per la maggio parte delle persone che suono fuori di qui ormai questi sono i valori che contano: avere successo, cioè avere riconoscimento sociale. Ma siamo sicuri che si è veri uomini per questo? Non si rischia di perdersi qualcosa, qualcosa di fondamentale, anche se si parla benissimo l’inglese o si esce con il massimo dei voti dalla Bocconi? Non c’è forse qualcosa di più importante che fa un uomo –qualcosa che infondo sappiamo benissimo?