II Domenica di Quaresima

Dt 6a;11,18-28; Sal 18; Gal 6,1-10; Gv 4.5-42

Domenica scorsa parlavamo di come la tentazione non sia qualsiasi cosa, ma una scelta in cui percepiamo che c’è in gioco qualcosa della mia identità, qualcosa che mi corrisponde. Proponevo anche l’idea che la parola tentazione non indichi un male che si mostra come affascinante, ma lo spazio interiore che occupa dentro di me eventualmente anche un bene.

Questo Vangelo offre diversi spunti per proseguire la riflessione su ciò che “corrisponde appieno a noi stessi”, sul “nostro spazio interiore”. Cosa racconta di straordinario questa pagina? Racconta di una donna che cerca di evitare gli sguardi degli altri e le domande impertinenti delle persone. Lo sappiamo perché ha fatto diversi chilometri a piedi per non andare al pozzo del paese, dove le donne del villaggio attingevano l’acqua solitamente tutte assieme. Va nell’ora più calda, approfittando forse del fatto che in quel momento tutti restano in casa.
Tuttavia, in questa circostanza la interroga un uomo seduto al pozzo. I due si scambiano le solite domande di circostanza che cadono tutte nel nulla, ma l’uomo insiste perché vuole guardare la donna con uno sguardo più profondo. La scena resta in sospeso ed è interrotta dall’arrivo dei discepoli che, accortisi dell’importanza del momento, rimangono “con le borse della spesa in mano” senza riuscire a dire nulla (così scrive l’evangelista).

Cos’è avvenuto di straordinario? E’ accaduto che in quel dialogo e in quell’uomo che le stava di fronte la donna ha scoperto e ha ammesso una verità su di sé, forse proprio quella verità che voleva nascondere a sé stessa. Quello che ha colpito così tanto la donna non penso sia il fatto che Gesù sapesse il suo passato, ma che sapesse la verità su di lei, che la conoscesse, che parlasse come se di lei sapesse da sempre la più intima verità della sua vita –questo è molto più importante. Potremmo dire che in quello sguardo la donna si è sentita amata, malgrado dovesse fuggire continuamente dagli altri (forse per paura?). Tuttavia, sarebbe troppo semplicistico usare la parola “amore”. Preferisco dire che la cosa fondamentale per questa donna che dice “forse ho incontrato il Messia” (che bello questo “forse”!) è quella di essere riconosciuta.

Essere riconosciti significa trovare qualcuno che pronunci il nostro nome non perché gli serve o gli è utile, ma perché “sei tu e basta”. E’ ciò che cerca ogni uomo quando rientra a casa alla sera, sentire la voce di sua moglie che chiama proprio lui (e non che dica che ci sono le scarpe da pulire o …). E’ quello che cercano i ragazzini al primo amore: l’esperienza di essere guardati e amati da una donna, anche l’esperienza di sentirsi “maschi”, “uomini”… E’ quello che cercano gli amici quando incrociano il loro sguardo non soltanto per chiedere qualche favore, ma nella ricerca dell’altro come amico, come sostegno, come sconfitta di una solitudine… E’ l’esperienza di un genitore che vede il figli assomigliare anche fisicamente a sé stesso… E’ l’esperienza di sentirsi bravi in qualcosa, di riconoscerci in quello che facciamo, di sentire che il nostro tempo non è sprecato… E’ l’attesa dei ragazzi mentre aspettano che qualcuno clicchi su “mi piace” nel profilo di facebook, facendoli sentire persone ascoltate o desiderate…

La ricerca di poterci “riconoscere” ci fa lavorare, ci fa trovare una moglie, ci fa fare dei figli… Dove sta allora il problema? Esattamente come per l’acqua di questa donna, questo riconoscimento non ci basta mai. Noi facciamo anche esperienza della frustrazione, dell’assenza del nostro amico, del rifiuto di nostra moglie. Accade anche che più siamo rassicurati, anche nei nostri affetti o sul nostro lavoro, più ci appaiono fragili. C’è poi, come per questa donna, chi è stato incapace di vivere un’esperienza stabile di riconoscimento, chi ha avuto cinque mariti e sa di non essere di nessuno. C’è la consapevolezza che ogni riconoscimento è pur sempre parziale e provvisorio.

Quando emerge questa verità su noi stessi, allora le parole sull’acqua viva appaiono, a noi come alla donna del Vangelo, in modo diverso (e molto meno retorico). E’ possibile nella vita incontrare uno sguardo in cui facciamo esperienza di questo “essere riconosciuti”, dove “troviamo noi stessi” senza doverne avere più bisogno? Senza dover mendicare ancora che qualcuno ci dica “bravo”, che qualcuno “ci cerchi”? Senza dover più sopportare l’essere soli come esperienza del vuoto interiore? E’ possibile rompere quegli specchi che cerchiamo e speriamo ci mostrino chi siamo davvero?

La Samaritana ha fatto questa esperienza. Di fronte a quell’uomo, di fronte a quel “sono io che ti parlo”, nel luogo interiore di “spirito e verità”, è possibile che ciascuno incontri quella sorgente che non lo renderà più un mendicante. Una persona spirituale si vede da questo: il suo riconoscimento non dipende dalle circostanze e dall’affetto degli altri ma ha trovato la sua stabilità in uno sguardo diverso, quello del Signore, tanto da essere poi di sostegno per molti. Non significa che non si soffrirà più, anzi. Ma il proprio riconoscimento vero e profondo non dipenderà più dagli altri. Non si avrà più timore (cercando magari di scappare dagli sguardi degli altri) perché magari anche noi abbiamo avuto cinque mariti (o chissà cos’altro), se nel dialogo interiore con il Signore abbiamo troviamo la fonte del nostro vero riconoscimento, della nostra vera vocazione.