I domenica dopo la dedicazione

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Non so se notate un paradosso in queste letture. Da una parte, il Vangelo e la prima lettura sottolineano il valore universale dell’annuncio cristiano. Pietro dice: “mi rendo conto che Dio non fa preferenze di persona” e ugualmente Gesù afferma che il Vangelo sarà predicato “a tutti i popoli”. Dall’altra parte, lo Spirito sembra discendere solo sui dodici e Paolo nella seconda lettura dice: il mondo, con tutta la sua intelligenza e sapienza, non ha a che fare con Gesù Cristo. Cioè, il cristianesimo non è destinato a convertire il “mondo”, ma resterà sempre alternativo allo spirito del mondo e forse quindi anche dei più o della “maggior parte”.
Quello che costatiamo anche guardandoci attorno: il mondo continua a fare le sue cose e a pensare ai suoi interessi, nonostante duemila anni di cristianesimo. Non è certo stato convertito: ogni generazione ricomincia da capo una sfida che mi pare essere ogni volta personale e mai completamente risolta. Non ho una spiegazione al contrasto del mio credo di fede: da un lato “universale” e dall’altro “fuori dal mondo” e sempre “minoritario”. Provo però a dire qualcosa.

Io mi accorgo di questo: quando un uomo inizia a chiamare la propria “infedeltà” con la parola “libertà”, per non sentire nessuna colpa o limite a ciò che desidera… qualcosa dentro di lui prima o poi si rovina, che sia credente o meno. Quando un uomo è incapace di “perdonare” un torto ricevuto, oppure maschera il proprio vuoto di senso con il lavoro o con la voglia di successo; oppure quando qualcuno si abitua a usare un’altra persona (una ragazza, un amico, un genitore, un dipendente a lavoro…) per i propri interessi o comodi, magari con la scusa che l’altro non si lamenta… in tutti questi casi, non occorre essere credenti o aver sentito parlare di Gesù Cristo, perché sono convinto che qualcosa si rompa a livello umano, al livello della nostra natura o della pasta con la quale siamo fatti…

Non parlo soltanto del desiderio universale di essere felici, ma anche del fatto che le cose buone o quelle cattive abbiano una universale evidenza nella struttura di come siamo stati creati, al di là del relativismo nel quale siamo cresciuti. Se un ragazzo a ventisei anni si sposa, vuol bene alla sua amata e ha creduto nella bontà di questa cosa, c’è una evidenza universale della bellezza che emana anche al gruppo dei suoi amici. Non tutti potranno vederla, ma chi la vede intuisce che corrisponde alla natura per il quale l’uomo è fatto! Corrisponde e non è una semplice scelta tra le tante possibili e tutte ugualmente buone!

Vorrei fare l’esempio dell’eucaristia. Potremmo trascrivere quanto dice Paolo nella seconda lettura, quando afferma: i giudei cercano i miracoli e i greci cercano i ragionamenti culturali, mentre noi annunciamo Gesù Cristo. Proprio questo vale per l’eucarestia: il pane qui resta pane. Cosa cerco? Come dice Paolo: qui non ci sono miracoli da vedere, né ragionamenti sofisticati da fare. Se uno cerca un “miracolo” per convincersi di qualcosa, resterà deluso.
La questione vera è un’altra, come dice Paolo: seguire Gesù Cristo, ovvero, se vogliamo accettare o no di fare della nostra vita un dono come Gesù. Se vogliamo ricevere quel pane dobbiamo accettare questo: lo scopo della mia vita vorrei fosse come quello di Gesù che è stato come questo pane. Come Gesù ha fatto del suo corpo un dono per te, tu ricevi questo pane, chiedendo di vivere ugualmente. Ugualmente, cioè proprio come quel pane che ora puoi mangiare. Più che decidere cosa sia l’eucarestia o che coscienza averne (magari deluso dal poco miracolo o da inutili ragionamenti razionali) devi decidere cosa vuoi fare della vita, se seguire Gesù Cristo o meno, se ti basta il “pane spezzato” o se cerchi altro, come i greci o i giudei.

Tutti possiamo chiedere di voler fare della propria vita un dono, tutti possiamo e forse dobbiamo decidere se Gesù ci interessa o meno. La domanda resterà universale fino alla fine dei giorni per ciascuno di noi.