I domenica di Quaresima

Is 58, 4b-12b; Sal 102; 2Cor 5, 18-6,2; Mt 4, 1-11

Penso sia utile percepire le tentazioni di Gesù come il momento di una crisi radicale. Uso volutamente la parola crisi per due motivi, malgrado sia oggi molto abusata (qualsiasi sofferenza si trasforma davvero troppo facilmente in crisi…). Anzitutto perché è una parola sentita ed attuale. Noi non possiamo capire il Vangelo se non paragonandolo a esperienze che viviamo. Sappiamo poco su cosa sia la fame e la sete fisica, sappiamo poco sul rimanere da soli nel deserto o sul vedere la Città Santa dall’alto, ma sappiamo benissimo cosa sia una crisi. Noi conosciamo le crisi dei nostri figli, quando non trovano la loro strada, quando sono adolescenti… sappiamo cosa siano le crisi famigliari, quando non si sopporta più la moglie o il marito, quando non si percepisce il senso di una fatica… sappiamo cosa sono le crisi lavorative, le crisi di identità…

La sofferenza della crisi sta nel non poter vedere cosa accadrà domani, nella indeterminatezza di questo tempo, nel non conoscerne il destino. Ma sta anche nella indeterminatezza di me: se io conoscessi appieno cosa devo fare, cosa è giusto fare, chi sono… non vivrei davvero una crisi, ma al massimo “una fatica”.

E’ proprio questa la caratteristica delle tentazioni del Vangelo: non sarebbero vere tentazioni se fosse automatica la risposta di Cristo, se non fosse un tempo della messa in discussione di sé, del dubbio dell’aver sbagliato strada. Il dubbio di aver sbagliato tutto, il dubbio che la relazione con Dio ti porti solo a una inutile sofferenza. Il dubbio che gli altri siano più felici. Anche Gesù sta di fronte a questo dubbio avendo tra le mani null’altro che la sua libertà.
Ed è su questa domanda che Gesù inizia o ad affascinarci oppure a lasciarci indifferenti o sprezzanti. Perché il “dopo” del suo ministero sarà in qualche modo solo una conseguenza; non una cosa ovvia, ma viene dalla risposta a questa crisi.

Vorrei spiegarlo meglio. Cosa c’è in gioco in questa crisi? Cosa viene chiesto a Gesù? Gli vengono forse chieste cose evidentemente cattive? Gli viene chiesto di ammazzare qualcuno o di rubare? Che male ci sarebbe a sfamarsi e a soffrire un po’ meno la fame? Che male ci sarebbe a fare un bello spettacolo per convertire le persone o a possedere le ricchezze del mondo. Non sono forse belle le ricchezze?

Il dubbio e la crisi non nascono quando è evidente la natura “cattiva” di una scelta. La crisi è quando non sai. Quando percepisci che c’è in gioco non solo una azione (mi sposo, mi fidanzo, mi mollo, faccio questo o quest’altro…) ma tutto quello che sono, tutto il mio credo, il mio affidamento, tutto il criterio con il quale giudicherò la bontà della vita. Allora, la tentazione intesa come crisi mi fa domandare: per cosa mi è data questa umanità? E noi percepiamo questa domanda ogni volta che percepiamo l’umanità vera di quello che ci fa soffrire, l’umanità della tristezza e del limite, l’umanità unica della mia libertà e della mia ricerca. Allora capisco che la tentazione, come istinto, come tristezza è una positività umana, è una capacità umana, è una umanità perché mi pone la domanda: dov’è il vero bene per il quale io sono fatto?

Ecco la crisi vera, la tentazione vera: oggi da una parte c’è la logica del “basta che funzioni” (per citare il titolo di un film di Woody Allen), rubacchiare per sé istanti di felicità o di serenità a basso prezzo, senza chiederne un futuro o un senso. E’ la logica del fare “ciò che si vuole” per la propria felicità immediata (pur di non fare del male ad altri, si intende…). Dall’altra parte c’è la logica del Vangelo, la ricerca del pane autentico, della vocazione, della nostra relazione con Dio, del cercare prima il bene degli altri. La logica di non poter prescindere da un affidamento al Padre, la logica di dimenticarsi di sé…

Molti si rifiutano di riconoscere che la loro vera natura non si accontenta di rubacchiare “momentini di serenità”, avendo sempre paura della sete e del deserto per loro. Non si accorgono di quanto quella sete e quella fame (quella crisi, quella dipendenza da Dio) ci rendano alla lunga “più umani” e più “sensibili”, quanto quella lotta plasmi la nostra vera umanità. Quanto cambi il nostro sguardo e il nostro sorriso. Come ha fatto con Cristo.

Tanti, di fronte a questo Gesù, che scopre la sua insostituibile relazione con Dio, restano indifferenti, non ne colgono il fascino. Abbiamo tutto il tempo della Quaresima per tornare alla nostalgia di un persona così, di una umanità come quella di Cristo. Ci basterebbe la nostalgia di essere uomini che non hanno paura delle bufere, delle crisi e dei deserti, che non idolatrano la serenità domestica, ma si danno da fare perché c’è un sacco di gente che sta male davvero e per la quale sarà necessario tirar fuori pane dalle pietre (chissà come…). Ma non sarà pane per noi. Dobbiamo avere nostalgia di uomini così.

Mi viene in mente una pagina di Amos, dove il profeta chiede l’avvento di questa nostalgia.

Ecco, verranno giorni,
– dice il Signore Dio –
in cui manderò la fame nel paese,
ma non fame di pane, né sete di acqua,
ma d’ascoltare “una parola di Verità”.