I domenica di Quaresima

Gl 2,12b-18; Sal 50; 1Cor 9,24-27; Mt 4,1-11

Vorrei parlare di quello che comunemente ci fa venire in mente la parola “tentazione”; in un secondo momento vorrei mostrare come il Vangelo che abbiamo letto possa aggiungere (o togliere) qualcosa.

Nel nostro immaginario e nella vita quotidiana, “tentazione” significa qualcosa di peccaminoso da evitare. Una tentazione è un impulso verso qualcosa di male, che pure ha del fascino e una sua attrattiva. Spesso è riferita a un comando negativo, a qualcosa che non andrebbe fatto. Generalmente si sottolinea anche come il godimento costituisca solo una maschera, un’apparenza che nasconde un male più profondo. Da qui, tuttavia, nasce una domanda spinosa: perché il male affascina? Se una cosa mi fa male (o fa male), perché si mostra così bella e desiderabile?

Questa visione è stata spesso presente nella tradizione cristiana, ma pone oggi alcuni seri interrogativi. Per prima cosa, il carattere generico e quotidiano attribuito alla tentazione priva la coscienza di un discernimento reale, facendo sembrare tutto tentazione: il cioccolatino, lo spinello, fino al tradimento della moglie. Malgrado l’evidente diversità di ogni azione, tutto cade sotto la definizione affrettato di “tentazione”. Questo aspetto è stato così presente nel nostro immaginario che ha prodotto molti detti popolari, del tipo: “tutte le cose buone fanno male”, “tutte le cose buone sono una tentazione”, “c’è sempre scritto da qualche parte che non si può…”.

Ovviamente, il forte accento posto su questa idea di tentazione, invece di produrre un maggior senso morale, ha ridotto la nostra capacità di operare un vero discernimento nelle scelte e ha favorito un sano senso di legittima difesa, facendoci dire: da qualche parte bisogna pur peccare perché se no non si vive! Oppure, giustificazione del tipo: “tanto sono debole…” Al punto che adesso, quasi per contrappasso o rivincita, la tentazione è diventata un ottimo espediente pubblicitario. In uno spot si afferma: “lasciatevi tentare”, così come si eleva la qualità di una cosa facendola apparire molto raffinata, molto “chic”, tanto che solo pochi possono permettersela.

Potremmo fare altre due considerazioni su questa idea assai diffusa della tentazione: la prima è che essa non è esclusivamente cristiana, ma la ritroviamo identica anche in Omero. La seconda è il sospetto che “tentazione” sia in realtà un concetto molto vicino a quel meccanismo psicologico di tabù e senso di colpa (un desiderio sempre ostacolato da qualcosa), ben studiato da Freud. Ma su questo non abbiamo tempo di parlarne ora.

Alla luce di questo nostro immaginario, cosa ha da dire questo episodio del Vangelo? Ha da dire qualcosa di molto più profondo rispetto a noi stessi. Quello che c’è in gioco in questa pagina non è soltanto “cosa fare” o “come fare il bene ed evitare il male”, ma è l’identità del Figlio: “se tu sei il Figlio di Dio”.
Dunque, qui tentazione non è qualsiasi cosa! Non è evitare di mangiare il cioccolato o non andare in discoteca (che di per sé non sono cose né buone né cattive). Qui la tentazione è qualcosa che ti fa chiedere e scoprire tu chi sei veramente? Certo, anche andare o non andare in discoteca potrebbe avere a che fare con questa domanda (sopratutto quando si è schiavi di questa abitudine) e dunque diventare una “tentazione” a un certo punto della vita. Ma quello che caratterizza la tentazione è il suo legame con l’identità di noi stessi. Detto in sintesi: tentazione è quando scopri, attraverso una prova (cioè attraverso un atto sentito e sudato della tua libertà), che c’è in gioco chi sei. In altri termini: tentazione è il luogo dove scopri la tua vocazione.

C’è una seconda differenza da notare. In questo Vangelo la tentazione non è una cosa “cattiva” o “che fa male” che viene travestita di bellezza tanto da essere affascinante. Che cosa cattiva sarebbe trasformare pietre in pane per uno che ha fame? Non lo fa anche Gesù per la folla? Che cosa cattiva sarebbe fare “una bella piroetta acrobatica” per convertire al cristianesimo un bel po’ di persone? Satana non ha chiesto di uccidere qualcuno, di fare del male a sé o a qualcun’altro. Qui non ci sono “cose cattive”. La tentazione non è una “cosa cattiva” (per le “cose cattive” non servono le tentazioni).

La vera questione della tentazione non è rendere affascinante una cosa cattiva, ma lo spazio che occupa dentro di me anche una cosa buona. La cosa buona di trovare del pane diventa cattiva (nel senso che contraddice l’identità di quello che sono) quando è fatta per me e non per un altro, quando dentro di me occupa uno spazio tale da indurmi a non fidarmi più di Dio e a cercare di salvarmi da solo. Soprattutto quando c’è in gioco l’identità di Dio e del Figlio. Gesù moltiplica i pani per suggerire che Dio è disposto a fare anche miracoli pur di sfamare gli altri, ma Dio non fa neanche un “miracolino” per sfamare il suo Figlio, per sfamare se stesso. Questa è una differenza enorme: non muoverà un dito per schiodarsi dalla croce, mentre un attimo prima aveva riattaccato l’orecchio della guardia che era stata colpita.

Ecco il senso cristiano della tentazione: scoprire la propria identità di figli, cioè di persone che non si salvano da sole, ma che sono sempre mendicanti, sempre in relazione con Dio. Molti ragazzi chiedono “che male c’è?” a proposito di certi comportamenti. Spesso la risposta è una sola: non c’è nessun male! Dipende da quello che tu vuoi essere nella vita, da quello che decidi che ti è necessario per vivere. Dipende su cosa poggi la tua vita: se l’appoggi sulla ricerca di divertimento perché è noiosa o se l’appoggi sull’affidamento che fai al Signore Gesù che hai incontrato tramite lo sguardo degli amici di una comunità cristiana.

Del resto, la fede è proprio questo: accade sempre come per Abramo, che cammina tre giorni verso il monte Mòria, lottando contro sé stesso per una comando che non capisce, per scoprire alla fine la vera identità di Dio (che non gli chiederà il sangue del figlio) e quindi la vera identità di sé.