I Domenica di Avvento

Is 13,4-11; Sal 67; Ef 5,1-11a; Lc 21,5-28

Vorrei commentare le letture e l’Avvento che inizia a partire da un verso di una poesia di Cesare Pavese che recita:

la lentezza dell’ora è spietata per chi non attende più nulla

Per intero dice:

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

“La lentezza dell’ora è spietata per chi non attende più nulla”.
Io ho l’impressione che siamo fermi qui, alla “lentezza di un’ora spietata perché non attende più nulla”.
Noi adulti siamo fermi qui: famiglia, lavoro, amici, “quando c’è la salute c’è tutto”… già, e allora –ridotta la vita alla salute– cosa avremmo da aspettarci?
I ragazzi che aspettano la maturità, annoiati, sono fermi qui: “ormai dalla scuola ho capito cosa attendermi…”
Strutturalmente incapaci di attendersi qualcosa perché è diventata insopportabile e realmente eliminabile quella sofferenza che nasce dallo scarto tra “desiderio e realizzazione”. (es. telefono…).
Ogni discorso sulla politica, sulla crisi, sembra fermo qui: incapace di aspettarsi qualcosa dal tempo, rassegnato a una battaglia invincibile, rassegnato agli eventi. Così non sembra si possa mai uscire dai fatti o dagli incanagliamenti. Spesso ci si trascina impotenti. Appunto: davvero la lentezza dell’ora è spietata.

La seconda riflessione è che, rispetto al Vangelo che abbiamo ascoltato che descrive “grandi eventi”, “grandi catastrofi”, “grandi persecuzioni” — perché chi scrive vive l’invasione romana e la distruzione del tempio — il nostro tempo vive una male molto più “meschino”, più “quotidiano”, più “infimo”. A volte è la semplice arroganza di chi soltanto trova una scorciatoia nel vivere. Oppure, come esempio, il fatto che nessuno è condannato se professa la sua fede, ma in molti ambienti basta che sia politicamente scorretto (a scuola funziona così).
Il male nostro non è la distruzione clamorosa di un tempio, ma il logorio continuo di scandali o di semplici “furbizie” che ci abituano a tutto. Non è l’esercito romano armato, ma la maleducazione del ragazzotto, tanto arrogante quanto assolutamente impunibile.
Aggiungerei: da una “grande crisi” è facile attendersi poi qualcosa, ma su una continua e progressiva inflazione (non solo economica) come ci si comporta? Cosa ci si può attendere? Davanti a un grave peccato è più facile chiedere perdono, ma di fronte alla semplice mediocrità del nostro vivere (che tutta insieme non sembrerebbe essere nulla)?

Per contrasto, mi sembra che queste pagine e questo tempo di Avvento (se lo prendiamo sul serio) contengano l’invito a una non rassegnazione agli eventi, catastrofici o anche catastroficamente infimi e piccoli, come spesso quelli peggiori di questi tempi. Attendersi qualcosa è non rassegnarsi mai alla frustrazione dei legami buoni e delle esperienze belle che viviamo che mai sono all’altezza delle aspettative che contengono o delle promesse dalle quali nascono.
Mi diceva una Signore “sa, don, è la vita…”. A questa rassegnazione il cristianesimo aveva dato battaglia fin dai primi secoli: c’è una “difesa” che viene data ai discepoli — dice Gesù — che saprà sempre smascherare un’ingiustizia, anche quando questa sembra essere diventata parte della vita.
Chi — fosse anche solo nella sua preghiera — si abitua a questa “non rassegnazione”, all’attesa di un “giorno del Signore” (come nella prima lettura), all’attesa di un riscatto anche dalle sue mediocri qualità o troppo piccoli slanci nel vivere… beh alla fine si vede. Si vede in volto, si vede nella tenacia del suo lavoro, nell’affetto per sua moglie o suo marito, nella pazienza con i figli… Perché solo così l’ora smettere davvero di essere “spietata”.
E forse anche la parola “liberazione”, che chiude questo Vangelo, si comprende da qui.