I domenica di Avvento

Is 51,4-8; Sal 49; 2Ts 2,1-14; Mt 24,1-31

L’avvento ricorda che attendiamo non solo il Natale, ma il Signore che tornerà. Alla fine della vita sappiamo cosa noi incontreremo: non il nulla o il caso, non le guerre e l’apostasia saranno l’ultima parola, ma il Signore Gesù. Noi attendiamo questo ritorno, sia per noi come singoli, sia per la storia totale di tutti gli uomini. La vita dunque, nonostante le apparenti contraddizioni, è destinata a qualcosa di buono che ci aspetta (“la gloria del Signore” dice Paolo).

Perché tutto ciò è così importante? Perché ho impressione che oggi manchi lo “scopo”, manchi il “perché”. Lavoriamo molto, siamo presi o soffocati tra mille impegni, ma ho impressione che spesso non sappiamo “per chi” o “per cosa”. A volte, i genitori dicono: lo faccio per i figli. Ma poi i figli crescono, hanno le loro strade, si distaccano… e più forte si fa sentire il vuoto.
Lo “scopo” è uno sguardo che indirizza al futuro. Se il futuro non offre nulla di buono, nulla di interessante o sicuro, allora si genera la routine, l’apatia. Hanno un bel da fare gli adulti a incitare i ragazzi che starebbero tutto il giorno sul divano se loro stessi pensando al futuro non vendono nulla. Se i grandi vedono solo incertezza sul domani dei loro figli. Questo “niente”, questa “incertezza” che si vede nel futuro, retroagisce nell’oggi.

Mi vengono in mente i ragazzi che quando vogliono bene a una ragazza e iniziano a frequentarsi (ma succede anche nella vita sposata), dopo un po’ si accorgono del “niente” che accade, del ripetersi sempre delle stesse cose. Se vengono interrogati sul futuro si capisce che manca un perché, manca qualcosa che renda “sempre le stesse cose” attese e desiderate, cariche di senso perché indirizzate alla ricerca di qualcosa di bello assieme, magari nell’idea di una famiglia o di un cammino, di un legame eterno. Tutto era schiacciato all’esigenza di oggi di non rimanere solo, nel desiderio di qualcuno affianco. Ma manca uno scopo. Se, stando assieme, si pensa che poi tanto “ci si lascerà”, se stando assieme “non vedo niente nel futuro”, allora dopo un po’ accade la noia… Pavese diceva: “l’ora è spietata per chi non attende più nulla”. Ed è altrettanto problematico per me quando a questo nulla si “inventano” piccoli provvisori obbietti o interessi, ma che nascondono la routine di un legame: mettere su casa, scegliere i mobili, fare figli… nascondendo che sono compensazioni di un nulla che sta di fronte ad entrambi e che cerca nel “nuovo” e nel “diverso” la sua compensazione.

“Manca un perché” significa che ritorniamo a pensare come facevano i pagani: c’è un eterno ritorno delle cose, nulla di nuovo accade sotto il sole. Il tempo per gli antichi era ciclico. Gli anziani erano più saggi perché avevano visto più cicli della storia. Anzi, non c’è “storia”, ma c’è “cronaca”, c’è solo un accadere di fatti che si può raccontare, ma che non portano da nessuna parte. Tucidide, il primo storico, dice che fare storia è raccontare quello che si conosce, non vedere il senso di ciò che accade.
Il cristianesimo aveva introdotto invece una direzione, un senso lineare del tempo. Il tempo non si ripete, ma va verso il suo incontro con il Signore che passa attraverso la tribolazione. Questo accade nella vita personale come nella storia universale. Perché vivo? Perché mi sposo? Perché pure soffro? Per imparare a desiderare come Dio, per riconoscere alla fine il Signore che viene, come quando si cammina in montagna e si vuole arrivare cima (che spesso ha in cima una croce).
Cosa dicono i ragazzi quando vivono una relazione non solo come qualcosa che “è accaduta”? Dicono “ho avuto una storia” e dicendo questo imparano a collocare quel tempo nella loro vita, dandogli un “perché”, magari attraverso una maturazione o dei cambiamenti che intravedono.

Chiudo raccontando ciò che mi è accaduto di recente. E’ morta pochi giorni fa la mamma di un mio studente che era malata da tempo. Chiedo al figlio: “tua mamma ha sofferto molto?”. Il figlio risponde: “sì, deve aver sofferto molto. Ma non voleva farcelo pesare e sorrideva sempre”.
Mi sono chiesto: “perché sorrideva?” Sorrideva perché aveva di fronte a sé non il vuoto, non l’incertezza, ma un bene ben più grande della sua malattia: l’affetto per i figli. Se la tua vita va verso un bene, sai che sarà il Signore ad attenderti, sei anche disposto a sopportare molto e pure a sorridere. Se invece di fronte a te non vedi nulla, non c’è niente, allora basterà una fatica qualsiasi a rendere la vita insopportabile e persino indegna.