I Domenica di Avvento

L’avvento che oggi si apre mette a tema il problema del tempo così come viene percepito dagli uomini. Il tono apocalittico del Vangelo si rifà a due visioni: da una parte la guerra giudaica del 70 che fu davvero un “abominio della devastazione” (la visione storica), ma dall’altra anche una fine ultima dei tempi e una seconda venuta di Cristo (una visione di attesa teologica).

Questo secondo aspetto teologico del tempo mi sembra davvero dimenticato. Noi siamo persone religiosamente ancora in attesa. Sappiamo di cosa siamo in attesa, se crediamo in Gesù Cristo, ma non possediamo facili e magiche soluzioni. E dobbiamo constatare che la stessa nostra struttura di uomini ci chiede di vivere attendendo qualcosa.

In questo senso, il tema dell’avvento non è un tema da bambini o per bambini ai quali, giustamente, dobbiamo insegnare “ad aspettare”. Esso è invece anzitutto questione degli adulti e della loro vita. Fin tanto che si è ragazzi infatti c’è sempre qualcosa un po’ a lunga distanza che si attende come tappa della vita: la maturità, la laurea, una ragazza, il matrimonio, un figlio, la casa, un lavoro… Ma quando tutto questo viene in qualche modo raggiunto, o quando la vita adulta si sistema, cosa attende allora? Ci si può accontentare di vivere di piccole attese, di piccole soddisfazioni lavorative o quotidiane? Può bastare vivere attendendo le ferie, o una cena tra amici o una soddisfazione lavorativa? Oppure queste piccole attese rivelano anche il loro perverso gioco, il loro continuo “tirare avanti”, come quegli uomini del mito greco condannati a sollevare grandi pietre fino alla cima di un monte e quindi vederle rotolare giù, per poi ricominciare…

Scriveva Pavese: la lentezza dell’ora è spietata per chi non attende più nulla. La noia, la lentezza dell’ora, non è solo quella dei ragazzi che non sanno cosa fare, ma anche quella degli adulti che non sanno più perché continuano a fare quello che in fondo solamente devono fare. Perché dalla vita non si attendono davvero più nulla (se non, a ben vedere, il timore di qualche malattia o di qualche disgrazia). Perché hanno dimenticato Dio.
Ecco perché il richiamo di questo vangelo è sempre centrato su di noi: Gesù vorrebbe che almeno i suoi capissero che il problema non è il mondo cattivo o la crisi o gli atri… ma il punto sei tu e la qualità del tuo desiderio. “Badate a voi stessi”, “badate che nessuno vi inganni”, badate di non scambiare in questo tempo di attesa falsi idoli per il vero Dio.

Si può non attendere più nulla? Vivere di piccoli desideri, di piccoli acquisti e compensazioni? Si può! Si può vivere senza Dio! È impressionante che anche una parrocchia possa vivere la sua vita parrocchiale nel “tran-tran” delle cose ma senza aver bisogno più di Dio, senza bisogno di invocarlo, di sperarlo, di amarlo… Perché ormai si è creata una struttura, una routine che si vorrebbe sottratta al tempo con le sue crisi e le sue grazie (piena di Dio appunto). Per questo il romanzo di Bernanos, Diario di un curato di campagna, inizia dicendo che le parrocchie sono divorate dalla noia. Perché hanno fatto a meno di Dio, come ogni vita che vuole fare a meno di lui viene divorata dallo stesso tarlo, a meno di non essere davvero una vita drogata e incapace di guardare la sua tragicità.

Perché il tema del desiderio ha a che fare con la nostra capacità di rimanere dentro a una mancanza, a una necessità; senza compensazioni, senza droghe, ma con gli occhi e il cuore che patiscono tutta la nostra povertà e tutto lo scandalo del male insieme alla drammatica della vita (sono le beatitudini). E su questo punto il nostro tempo insegna “disumanamente” la fuga (le belle costruzioni del tempio). Ricordo qualche anno fa un ragazzo che si è suicidato e i suoi compagni alla notizia hanno deciso di uscire per ubriacarsi. Ma al di là di questo caso estremo, ogni frustrazione (la ragazza che non hai, il lavoro che non ti piace…) quando non è più il luogo della preghiera, della nostra invocazione a Dio, della nostra attesa di giustizia… viene sempre malamente compensata, dimenticata, fintamente cancellata. Peccato, perché era il luogo vero della nostra profonda umanità.

Continuiamo a patire e a sperare, perché ognuno di noi è chiamato a questa lotta. Senza questa speranza, la “lentezza dell’ora” sarà davvero spietata per noi.