Gv 6,16-21 – II Pasqua, sabato

Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare e, saliti in una barca, si avviarono verso l’altra riva in direzione di Cafarnao. Era ormai buio, e Gesù non era ancora venuto da loro. Il mare era agitato, perché soffiava un forte vento. Dopo aver remato circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Sono io, non temete». Allora vollero prenderlo sulla barca e rapidamente la barca toccò la riva alla quale erano diretti.

La notte arriva per tutti. Anche per quelli che non la vedono o per lungo tempo tentano di distrarsi altrove… Inesorabilmente capita di remare facendo una fatica boia. Non è necessariamente qualche disgrazia né una malattia del vivere, né una depressione, né il pessimismo cosmico… Ci sono anche loro. Ma qui i discepoli semplicemente sentono premere un po’ più del solito la fatica (anche fisica) di tirare avanti. Penso a diversi amici che devono stringere i denti (e a volte anche la cinghia) perché oggi spesso la vita ci affatica addosso (navighiamo in cattive acque – economiche, educative, sociali – si dice spesso), e il massimo a cui uno aspira in questi momenti è riuscire a fare ancora qualche metro… E uno sa che deve tirare avanti, almeno lui non deve mollare, perché è padre di famiglia, perché ha dei figli, perché ci crede realmente, perché se non lo fa lui nessuno ci pensa.

Chi non si accorge di questa sottile sofferenza e fatica nel vivere (che certo non è immensa ma pure esiste), chi la tratta solo alla soglia della malattia o della sfortuna altrui, chi cerca diversivi pur di non guardarla in faccia (ognuno ha i suoi), non diventa un uomo e continua ad accrescere il peso di chi (e sono molti e molto nascosti) faticosamente porta questo peso anche per gli altri. Non vede che il Signore sale (da invitato) su queste barchette.

“Vollero prenderlo sulla barca”. E’ il tocco di stile di Giovanni, dopo che ha fatto dire a Gesù quel fortissimo “Egò heimì”. Perché quella moltitudine di solitudini che remano sotto il peso delle cose e del tempo che sfugge (e non sai come stanno a galla) si sentono quasi in difetto per volerlo sulla loro barca!! Gli manca anche il coraggio di chiedere di averlo per un momento sulla propria barca. Temono persino il fatto che possa salire davvero, non gli sembrerebbe vero per loro. Quasi si sono abituati alla fatica di remare che non hanno coraggio di invocare (o sperare) che qualcuno li porti rapidamente a riva. Insegnassimo questo coraggio di “volerlo prendere” sulla barca, e di invocarlo così, come umanamente la nostra non rassegnazione ci chiede e ci porta a sperare… avremmo se non altro insegnato a pregare.

Perché senza questo “invito” (che è lo stesso dei discepoli di Emmaus del vangelo di domani) – che nasce sempre da un gesto o una parola provocatoria del Signore – il riconoscimento del Signore resta sospeso. Invece, da quando la Resurrezione del Signore è riconosciuta (non è più sospeso ma è certo), esiste una religione sulla faccia della terra che non accetta più questo baratto: buttare il mondo pur di vedere Dio. Già troppe cose rimangono in sospeso senza giungere a riva, ma non le barattiamo con una visione di Dio che le lascia semplicemente al loro destino, sia quello che sia. Non lo facciamo più da quando il Signore è risorto. Noi vogliamo vedere le ferite rimarginate, non dimenticate; la prevaricazione riscattata, non rimossa… vogliamo giungere a riva! Il cristiano ha imparato a credere che questo è quello che vuole Dio, e per esserne certi a volte davvero basta un invito.