Gv 12,44-50 – IV Pasqua, mercoledì

In quel tempo, Gesù gridò a gran voce: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo giudico; perché non sono venuto per giudicare il mondo, ma per salvare il mondo. Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che ho annunziato lo giudicherà nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me”.

Stiamo di fronte a questo appello di Gesù. Ne scopriamo tutta la dinamica della testimonianza e della rivelazione, che di continuo ci sfugge alla ricerca di una plausibilità del sacro che irrompa in modo da renderci tutti incantanti, tutti ammagliati (come vorremmo la nostra gente di noi…), da lasciarci privi di errore, dal giudicarci tutti – come vorremmo per primi noi stessi, rispetto alla dinamica della testimonianza che Gesù svela. Perché, purché la verità sia universalmente evidente (così da sapere sempre cosa fare nelle cose della vita, senza quella "lettura" che ci inquina, senza quel "rischio" e quella "fatica" della carne che ci angoscia) saremmo disposti anche veder perdere degli amici amici nella fuoco eterno, pur di vedere tracciata così questa linea del bene/male.

E invece nessun giudizio viene rivelato da essere capace di condannare definitivamente un uomo. E invece la dinamica della rivelazione chiede tutta la sua ricerca "per speculum", senza facili giudizi. E quale è questa "dinamica della rivelazione" che qui il Signore mostra e che rende un "appello" per noi?

E’ l’opera della Luce, è il lavoro della testimonianza come svelamento. Quell’opera che punta l’indice sulla nostra essenza, al fondo misterioso che ci alimenta, come se levasse la buccia delle cose, la pellicola del loro mostrarsi, per farsi segno di un rimando profondo e più intimo. E’ il contrario di pensare al dato della legge o alla considerazione teorica o etica o del carattere o del comportamento o dell’aspetto estetico… alla ricerca di quella finalmente esatta (come dire: ecco la legge perfetta, ecco la soluzione ideale…). Questa vive dell’inganno che la realtà più profonda sia nel solo pensiero (o peggio fosse il pensiero) o in un’etica, o estetica o nella intuizione o… (che è sempre un ideale rispetto alla "carne" della vita). E invece questa rivelazione è Luce. E’ il Figlio nel rimando al Padre. E’ proprio la Luce che è il Figlio che accendere lo sguardo umano e che suscita affetti e pensieri. Senza non ne saremmo mai capaci. E’ la sua opera della trascrizione in noi da quello che sentiamo senza vedere (credere) e che possiamo vedere (credere) solo dopo aver sentito.

L’opera del credere non è opera del pensiero, ma della illuminazione, del riflettere, dello specchio, del sentiero della luce nelle tenebre, del rischiarsi in una raduna. Ma non (come la pensa Heidegger) sempre al livello della intuizione del pensiero che si accende, ma del corpo che sente e vede cose nuove… Perché questa rivelazione parte dal suono e dal corpo dell’uomo di Nazaret. E’ sempre da lì e per questa vicinanza carnale che ci viene la possibilità di invocare la Luce. Non dobbiamo stancarci di ripetercelo perché il rischio delle idee Giuste è sempre in agguato…

Per cui Ti ringraziamo per la nostra piccola luce, variata dall’ombra.
Ti ringraziamo per averci sospinti a edificare, a cercare, a formare sulle punte delle nostre dita e al raggio dei nostri occhi.
E quando avremo edificato un altare alla Luce Invisibile, che vi si possano porre le piccole luci per le quali fu creata la nostra visione corporea.
E noi Ti ringraziamo che la Tenebra ricordi la luce.
O Luce Invisibile, Ti siano rese grazie per la Tua grande gloria!

(T. S. Eliot, Cori da La Rocca)