Giovedì Santo, S. Messa in Coena Domini

Cosa siamo qui a fare? Siamo venuti per vedere cosa?
E’ importante che ce lo chiediamo. Lo chiedeva il più giovane al più anziano nel rito ebraico della Pasqua.
Così anche noi non possiamo perdere il “perché” di quello che stiamo vivendo. Anche se già lo sappiamo ogni anno ci è chiesto di dirlo in modo diverso e con parole nuove. Del resto, accade come quando si è innamorati o si è tra marito e moglie o tra amici: o ogni anno si impara a ridirsi le cose in modo diverso e nuovo oppure quell’amicizia e quell’amore hanno già perso il loro “perché” e stanno morendo.

E questo vale ancora di più per il nostro rapporto con il Signore, con l’eucaristia. Una volta una signora un po’ anziana mi diceva: “sa, non so se credo proprio nella risurrezione, mi è difficile, chi è stato di là?”. E io gli ho detto: “ma venire a Messa tutte le domeniche e credere che questo Pane sia il Corpo del Signore sarebbe più facile?”. O forse ce ne siamo abituati?

Dunque: cosa siamo qui a fare?
Siamo qui ancora a guardare un gesto del Signore e a guardare la “realtà” della nostra. Non ci è chiesto di guardare in cielo, ma di guardare profondamente la realtà della vita. Lo dico con uno slogan: imparare a cancellare dal nostro sguardo quel sospetto profondo che nutriamo contro di noi e contro Dio. Solo a questo spezzare del pane si cancella per sempre il sospetto profondo che abbiamo su Dio e su di noi.

Ma quale sospetto? Quello che insegna il serpente nella Genesi, quello che abbatte Giona rendendolo triste fino alla morte. Lo dico in termini moderni: il sospetto che Dio sia un po’ ambiguo e che per questo ci siano uomini fortunati e uomini sfortunati e che tutto stia qui. Uomini per i quali la vita è una benedizione, uomini che hanno trovato la loro strada, uomini che possono essere felici; e allo stesso modo ci siano uomini disgraziati e maledetti, uomini per i quali vivere è e sarà solo una fatica.

Noi siamo qui a dire che questo è falso. E’ profondamente falso. E’ una voce che mettono in giro che non corrisponde alla realtà e al nostro desiderio.
E anche se il mondo andrà in giro a dire ai giovani che l’importante “è la fortuna” e che “quando c’è la salute c’è tutto” –sottintendendo anche– “spera bene di essere tra questi” e a volte “fai come dico io per essere tra questi”, “prendi questo per essere tra i fortunati”…
E se il mondo andrà in giro a insegnare che la destinazione degli uomini è buona per chi ha avuto un po’ di fortuna ed è dubbia per tutti gli altri. Bene, noi diciamo che non è così.

Non c’è neanche un uomo al mondo che non meriti il nostro sorriso perché non merita in fondo l’abbraccio di Dio. Qualsiasi cosa abbia fatto. Nessuno di noi è segnato dalla nascita “fortunato” o “sfortunato” irrimediabilmente.
E la nostra volontà è capace di cambiare per noi e per gli altri qui e realmente anche le vite più disgraziate (e questo a volte si chiama miracolo).

Quando Dio è una cosa ambigua (è un essere perfettissimo e ignoto) allora la fortuna o sfortuna ti segna irrimediabilmente e tu non sei più capace di quasi nulla. E infatti è quello che continuano a dire i ragazzi che ancora non credono in questo Dio: “io non sono capace”, “eh ma io non ce la faccio”…

Invece, se uno capisce che “Dio è questo pane spezzato”, “che Dio è così”, allora nella vita non c’è fortuna o sfortuna che tenga, non c’è età (una cambia a 14 anni come a 20 come a 50), uno alza il telefono, uno non subisce la vita, uno si inventa cose per gli altri.
E se invece Dio è “l’essere perfettissimo creatore del cielo e della terra”, posso stare in ginocchio tutta la vita in pia adorazione ma è la fortuna e sfortuna che mi farà terrore e che governerà al mio posto.

La Chiesa è quella compagnia di uomini che non hanno paura di Dio perché lo hanno conosciuto così, ogni domenica allo spezzare del pane. Per questo non hanno paura di fortune o sfortune.
Ecco perché l’anno scorso dicevamo di non usare la parola “amore”, che appunto è cieco ed è ancora legato all’ambiguità della vita. Credere nell’amore significa non cancellare ancora la delusione che dice “ma per chi lo facciamo”, ma “perché tanta fatica”?

Se invece il Dio che sorregge la nostra vita è un pane spezzato, è un uomo che abbraccia fino a farsi inchiodare, ma potremo ancora sospettare qualcosa su di lui e sulla destinazione della nostra vita? Possiamo ancora credere che per essere fortunati e felici dovremo davvero fare tutto quello che ci dicono: e imparare l’inglese ed essere all’altezza, e avere tutto quello che ci dicono di avere? O non basterà molto meno nella vita?
Se questo pane è il Signore, se è Dio davvero, che paura posso ancora avere sul mio destino, su quello che sarò, su quello che sono stato capace di fare? E come posso pensare di rimanere solo?