Giovedì Santo – Messa in Coena Domini

Gn 1,1-3,5.10; 1Cor 11,20-34; Mt 26, 17-75

Siamo arrivati al momento decisivo della storia del Signore Gesù. In questa notte si concentrano tutti i gesti di cura e dedizione (la lavanda dei piedi, il pane spezzato, l’orecchio guarito…) e allo stesso tempo anche il più grande fraintendimento, il massimo del tradimento fino alla violenza fisica.

In quest’ora sono presenti “i suoi”, quelli che lo seguono, quelli che non se ne sono andati prima. Anche noi, se siamo “i suoi”, dobbiamo tornare continuamente a questi gesti. Perché attorno ad essi riconosciamo custodita la verità di una promessa buona della vita, se no non saremmo qui. Eppure –chissà come?– su questa verità ci confondiamo sempre. La intuiamo e la intravvediamo, ma poi subito rimaniamo confusi o annoiati. Allora, bisogna ritornarci sopra e non dare per scontato quello che succede qui.

Per non banalizzare quello che accade, due parole ci fanno da guida: “consegna” e “responsabilità”.
Gesù riconsegna la vita. La riconsegna ai discepoli nel gesto simbolico del pane e del vino, pur sapendo di essere tradito. Quindi, non senza angoscia la riconsegna al Padre nella preghiera al Getsemani, per affidargli la vita insieme a quelli che erano con lui. Consegna il suo corpo al bacio di Giuda (chiamandolo “amico”!) senza sottrarsi o indietreggiare, senza chiamare le “legioni di angeli”.
Tutto quello che gli era stato dato (amici, affetti, serenità… fino alla vita) gli viene tolto. Ma lui legge questo fatto non come una semplice sventura, ma come una riconsegna, come una restituzione necessaria.
Anche Paolo, a distanza di anni, leggerà la sua vita così. Abbiamo ascoltato: “ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Le uniche cose che Paolo possiede sono quelle che ha trasmesso, quelle che ha imparato a riconsegnare. Come dire: “nessuno ha se non ciò che dona”, “nessuno conosce se non ciò che è capace di dire”.

“Riconsegnare” sembrerebbe un di più, un gesto benefico che non è necessario alla realizzazione di sé, al proprio successo. E’ una cosa bella, ma è un di più, è un’opera pia. Invece, questo racconto mostra che la riconsegna è un gesto più forte, più coraggioso, più vero del trattenere. Trattenendo ci si sente vuoti. Sembra un paradosso, ma accade davvero così: Narciso muore affogato a furia di guardare il suo volto nello specchio d’acqua del lago. La bellezza quando serve a sé stessi appassisce e porta alla morte.
Se non si impara a riconsegnare al Padre le proprie amicizie, i propri affetti, le proprie ricchezze, queste – paradossalmente – ci faranno morire.
Se si viene a Messa per prendere qualcosa, per portarsi via un pezzettino di “sacro” o di “santità” o di altro, allora non ci basterà mai e le nostre mani non saranno mai abbastanza piene di tutto quello che desideriamo per noi.

La seconda parola è “responsabilità”.
Abbiamo sentito il racconto di Giona che scappa dalla propria responsabilità di profeta, fino a chiedere la morte, ma inesorabilmente non c’è luogo dove possa scappare al proprio compito.
E abbiamo sentito il gesto della responsabilità del Signore che letteralmente “si mette in mezzo” per proteggere i “suoi” e spargere meno sangue possibile.

“Responsabilità” –di nuovo– sembra un peso, un’opera pia e devota che non serve all’affermazione di sé, al proprio successo, alle proprie amicizie o ai propri progetti. Di nuovo, sembra un “di più” superfluo al vivere e non una verità.
Invece, proprio questo è l’inganno del mondo, è il fraintendimento di Pietro che estrae la spada dal fodero. La “responsabilità”, il “mettersi in mezzo”, il “proteggere qualcuno” hanno una tale potenza in sé da riuscire a generare vita e ricchezza anche quando svuotano se stessi.
Lo si vede nelle mani callose e nello sguardo acuto di chi ha passato la sua vita per crescere altri, per tirare grandi figli suoi e non suoi, per occuparsi non solo della sua casa, ma anche della sua chiesa, del suo quartiere, della sua città.
Lo si vede: chi non si prende cura di nessuno non ha neanche bisogno della depressione, perché gli basta una piccola frustrazione oggi per sentirsi nessuno. Nessuno gli ha mai insegnato che noi siamo fatti proprio così: riusciamo a sopportare l’insopportabile se abbiamo qualcuno da accudire, mentre siamo perduti e andiamo nel panico quando accudiamo solo noi stessi.

Un amico, un amore, è tale solo nei gesti della nostra responsabilità e della nostra riconsegna. Se no, non è amore. Senza i gesti del Signore, senza la sua memoria e la sua presenza tra noi, noi perderemmo questa verità e con essa perderemmo noi stessi. Senza Gesù, senza “fare la sua memoria”, noi seguiremmo più volentieri il mondo, affermeremmo più volentieri noi stessi, faremmo più volentieri il gesto di Giuda, il gesto Pietro, il gesto di Caifa… e poi, magari solo alla fine, ci scopriremmo a mani vuote, traditori e poveri. Ci scopriremmo essere nessuno.
Ma standogli vicini, coll’intelligenza, col cuore, noi possiamo imparare, ogni volta da capo, a guardarci negli occhi e sapere che abbiamo in comune questo Signore Gesù, questa verità sulla vita, questo desiderio e solo così imparare a chiamarci amici.