Giovedì della IV Feria dopo l’Epifania

Ct 2,1;4,1a.3b.4a;7,6;8,11a.12a.7a-b; Sal 79; Mt 22,1-14

La prima osservazione che faccio riguarda il carattere drammatico di questa parabola — da nascondere quasi nel testo un accento di ironia: il banchetto tanto atteso da tutto Israele, il sogno di ogni israelita, viene rifiutato. Questo accade o perché non appare importante (non se ne curano o hanno altro da fare) oppure perché sembra addirittura irritante tanto da far insultare e uccidere.

Possiamo dire: Il Vangelo di Gesù passa attraverso il suo drammatico fraintendimento. L’appello che risuonava fin dalle prime pagine, “il Regno dei cieli vicino”, come quel “tutto è pronto” che si ripete in questa pagina, sembrano semplicemente ignorati.
E’ decisivo maturare la consapevolezza di questa drammatica. Perché è decisivo?
Perché a livello di un sogno, di una ideologia, di una “societas perfetta”, nel cristianesimo non c’è dramma. La vita ridotta al livello di bisogni non genera nessun vero dramma. Ciò che genera dramma è invece al livello della promessa e del desiderio. E’ il mio accorgermi, per dirla con Paolo, che non faccio ciò che desidero, eppure lo desidero.
A questo livello del desiderio, o della promessa, l’appello genera un dramma nella nostra vita. Genera uno sguardo che scende dentro le profondità del soffrire, anche nelle banalità del male (la distrazione di persone che hanno sempre altro da fare…).
Essere credenti è più doloroso (e non può non esserlo) perché ogni crisi è un dubbio, è un’ombra gettata su quella promessa.
Dice Bonhoeffer, all’inizio di “Vita Comune”: dobbiamo avere in mente che Gesù Cristo è vissuto in mezzo a gente a lui ostile e anche il posto dei cristiani è stare in mezzo ai nemici, e cita: “il Regno si compirà in mezzo ai tuoi nemici”.

La seconda osservazione riguarda la chiamata di questo Re, così decisiva da cercare ovunque nuovi interlocutori.
Mi sembra interessante anche perché corrisponde a quella percezione di Chiesa che ci raccomanda il Concilio Vaticano II. Lumen Gentium 2,4 dice che ciò che c’è in gioco nella Chiesa è esattamente una chiamata che viene da lontano. Così radicale che ti coinvolge non perché cristiano o buddista, ma soltanto come uomo. Il frate cappuccino Jaque Didal (della scuola di Lovanio) dava una visione dei centri concentrici della Chiesa da leggere dall’esterno all’interno: questa chiamata riguarda gli uomini di buona volontà, abbraccia i credenti non cristiani, i cattolici e arriva al suo centro (e diceva: il dialogo è per la Chiesa un metodo per adeguarsi alla metodologia di Dio con gli uomini).

La terza osservazione: questa chiamata radicale, questo dialogo tra Dio e gli uomini, non è una questione di moralismo. La parabola dice: “quanti ne trovarono buoni e cattivi”.
Mi viene in mente la regola che scrive Agostino per i suoi monaci, dice: “non scrivo questa regola per essere bravi monaci, ma perché scoprano la bellezza del vivere insieme”. E il segreto, dice Agostino, è: “non dite di nulla è “mio” ma tutto sia comune tra voi”.
In questo senso, l’abito nuziale, direbbe Agostino, è la tua capacità di dire di nulla “è mio”. Non è la nostra capacità di essere bravi genitori, bravi studenti, bravi amici… ma di spossessarci anche di questo o del vanto della nostra chiamata.