Festa della Santissima Trinità

Gen 18,1-10a; Sal 104; 1Cor 12,2-6; Gv 14,21-26

La sfida della festa di oggi non è quella di spiegare la Trinità. Le letture di oggi ci ricordano che all’origine non c’è un dogma difficile e filosofico che è da capire correttamente. Al contrario, all’origine c’è un incontro particolare con Dio (la prima lettura) o la decisione di affidare la propria vita a un Dio-Padre (il Vangelo).

La sfida è dunque quella di parlare del nostro incontro con Dio e della relazione che abbiamo con lui, per scoprire da qui cosa sia il dogma trinitario. In questo senso, noi siamo nella condizione di Abramo che attende nell’ora più calda della giornata all’ombra della sua tenda. Non è detto che accada qualcosa e, più facilmente, avremo anche noi qualche problema in famiglia più contingente di Dio. Ma il nostro senso religioso già esiste, esso è la normalità della vita e della coscienza. Abramo è già un credente perché noi siamo “relazione con un infinito”, coscienza di una destinazione e di un senso. Noi guardiamo le stelle e ci viene in mente quanto siamo piccoli nell’universo. Vediamo un bambino nascere e pensiamo al suo futuro, ecc. Per tutti è così. Tutti abbiamo un qualche senso di Dio.

Per alcuni la coscienza religiosa nasce come risposta a un limite, a una finitudine, all’angoscia della morte. La percezione di Dio esiste perché sono schiavo dell’angoscia nel vedere finiti o frustrati i miei desideri, perché vedo andarsene i miei amici. Non solo come risposta alla coscienza della morte finale, ma di ogni “morte” quotidiana. Abramo pensa a Dio come risposta al problema di un figlio che non può nascere, di un futuro che non può esistere (ecco un limite) e che ha anche smesso di desiderare. Dunque, per alcuni sarebbe questo la religione: risposta a una angoscia.

Cosa accade in questa logica della coscienza religiosa? Accade che tanto più è rimarcato il limite, l’angoscia, la frustrazione, quanto più emerge Dio e il religioso. Quanto meno l’uomo può felicemente vivere e desiderare, quanto più emerge la speranza di un Dio. Ecco cosa accade: speri un Dio perché non speri nella vita. Quanto più c’è Dio, quanto meno ci sono gli uomini con tutti i loro desideri. Diceva Nietzsche: “per forza predichi la povertà tu prete! perché non puoi essere ricco”.
Secondo questa opinione, la crisi della coscienza religiosa dell’occidente è dovuta al progresso tecnologico. Per dirla con il Salmo 49 “l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono”.

Qual’è la caratteristica di questa coscienza religiosa? Che è sempre inadeguata di fronte a Dio, è sempre schiava di un volere arbitrario (mi guarirà la zia? mi farà andare bene il lavoro?). Dio è trascendente in quanto l’arbitrario. Qualsiasi atto possa fare non sarà mai alla sua altezza, non arriverà mai a una certezza. In fondo tutta questa religione appare inutile.
Il Dio che appare dall’angoscia della vita è tanto prepotente quanto infinitamente lontano. E un dio arbitrario e lontano, un dio essere perfettissimo causa di tutte le cose, è tanto rassicurante quanto inutile. Allora è meglio essere atei.

Contro questo senso religioso c’è tutta la storia di Israele e la pretesa di Gesù. La nostra relazione con Dio non nasce come risposta all’angoscia del limite e della morte (spesso ce la teniamo tutta), ma come libero stupore di una presenza, come libero assenso a una pretesa: chi vede me vede il Padre –dice Gesù Cristo. E ancora: “chi ha dato anche un solo bicchiere d’acqua a uno di questi piccoli perché mio discepolo lo ha dato a me”.
La storia di Abramo poteva fermarsi alla sofferenza del figlio mancato, ma vive l’inaspettato di una presenza, di una visita, di una promessa rinnovata alla quale decide di dare fiducia. Dio torna ad apparire come superamento inaspettato di una crisi che ci fa riconoscere Dio in relazione a quei doni che per essere compresi si devono ricevere con lo Spirito del donatore. Per questo è interessante che Sara non comprenda questo dono: deve aspettare di leggere il dono con lo spirito stesso del donatore per dare credito a quella pretesa. Il Dio trinitario si rivela come incontro inaspettato che trasforma e che fa leggere la vita stessa non più come angoscia della fine ma come stupore della presenza.

Dio si fa conoscere nella nostra storia non più come un oggetto che ci sta di fronte (la risposta all’angoscia della morte) ma in modo nuovo: per partecipazione, per conformazione. Attraverso un incontro concreto, attraverso la storia di un uomo. Lo vedo solo se opero con il suo Spirito, lo capisco e lo conosco solo perché agisco come lui. La Trinità più che una nuova nozione di Dio è un nuovo modo di conoscerlo. La novità del Dio trinitario è la possibilità di conoscere Dio non perché lo si ha difronte (come angoscia), ma perché si agisce come lui, si vede come lui, ci si comporta come lui… cioè? cioè solamente amando. Lo abbiamo ascoltato nel Vangelo: “se uno mi ama, il Padre mio lo amerà e noi prenderemo dimora presso di lui”. L’uomo giunge a sé stesso solo nella relazione. Altrimenti si perde o si odia. Questa è la verità di Dio e dell’uomo.