Domenica di Pentecoste

At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,1-11; Gv 14,15-20

Due domeniche fa, parlavamo dello Spirito, a partire da quel Vangelo di Giovanni vicino a questo che promette ai suoi la venuta di un Paraclito. Sottolineavo questo: come lo Spirito sia “riserva affettiva nella vita” che ci fa ricordare nei momenti opportuni una storia e una chiama più originaria (quando si rompono le nostre immagini delle realtà).

Riprendiamo queste intuizioni alla luce di quanto dice Paolo: “Nessuno può dire Gesù è Signore se non sotto lo Spirito Santo. Vi sono diversità di carismi, ma uno è lo Spirito… ”

Cosa significa? C’è una conoscenza di Gesù che si accende nella forma di una intuizione (a qualsiasi età). Si arriva a un punto per cui non si può fare a meno di dire “Gesù Signore”, riconoscendone il significato della nostra esistenza.
E questo lo si fa in forza di un una intuizione che viene che dallo Spirito.
Sherlock Holmes quando faceva le sue indagini non vedeva indizi, ma vedeva il colpevole.
Un giornalista che racconta un omicidio o una strage non vede un dramma umano, ma vede lo skoop che mi farà avere successo.
Uno studente che fa il suo compito di matematica non vede dei numeri o simboli da sistemare ma una prova che gli farà a meno passare l’estate sui libri.
C’è sempre un colpo d’occhio, un’intuizione che ci fa guardare le cose e che da un senso a quello che vediamo. Una mamma che guarda crescere il suo bambino non vede solo il figlio allungarsi o cambiare numero di scarpe, ma nel suo colpo d’occhio, vedrà quel ragazzo che diventa un uomo e che non si aspettava.

Allora dice Paolo, lo Spirito è quel colpo d’occhio che della diversità ci fa intuire un legame comune. Pensate a questi ragazzi: io e il don, io e i miei genitori, io e altri ragazzi siamo diversissimi, a volte distanti anni luce, ma possiamo credere che tutti e due nelle cose importanti riconosciamo lo stesso “bene” e “male”.
La chiesa è attraversata da questo mistero. Uno dice: io e san Francesco quando preghiamo o diciamo il Padre Nostro facciamo la stessa esperienza, pur essendo che io non sono san Francesco.
Perché c’è in noi una intuizione che il senso delle cose che facciamo ci viene da una una chiamata più profonda e originaria.
Il credente non è più intelligente, ma pensa di aver ricevuto quello sguardo sintetico su di sé e sulla sua vita che dice: a questo mi chiama il mio Signore. L’unico sguardo su di sé che non lo riduce a essere un caso o una routine o una macchina per fare sesso o fare soldi o “semplicemente fare”.
Dice invece paolo: ci sono diversità di carismi e di vite, ma tu – se hai lo spirito – riconosci che tutte o sono fini a sé stesse o sono destinate a morire oppure contengono un infinito di Dio che è lo stesso che abita la storia di Gesù.
La sfida di raccontare la vicenda di Gesù a questi ragazzi è che loro attraverso la nostra passione colgano questa unità: allora come oggi. Nella diversità dei tempi (ma don Gesù non aveva neanche la luce) c’è una parola che ti dice chi sei.

Spesso noi non ragioniamo così. Viviamo facendo tante cose e poi sentendoci un po’ vuoti cerchiamo un rimedio o una compensazione e diciamo “c’è la fede”, “ci sarà il Signore”. Come se il Signore fosse “oltre” le cose. Invece il Signore non è oltre la vita, ma quella che mi fa fare dei collegamenti nella vita, quel filo rosso che unisce le cose e così facendo fa ritrovare un senso.