Domenica di Pasqua

Siamo qui per celebrare il cuore della nostra fede, il kerigma.
Al cuore della nostra fede c’è che il fatto che duemila anni fa un uomo dopo essere morto è stato visto ancora vivo. Non trovando il suo corpo, qualcuno l’ha visto in una forma nuova (certo non facile da capire per noi) ma vivo e sicuro fosse proprio quel Gesù che ben conosceva.

È una cosa enorme perché è l’unica cosa che ci permette di sperare seriamente che ciò che più desideriamo tra tutto, i nostri affetti e la bellezza della vita, non vadano perduti in nulla.
Si può forse pensare a una cosa più grande e più importante di questa? Credo di no perché mentre qualsiasi altro desiderio che abbiamo (un buon lavoro, una bella famiglia, degli affetti sinceri…) sarà sempre temporaneo ed effimero, sarà sempre destinato “a morire”, qui invece c’è in gioco qualcosa di eterno, c’è in gioco la verità di quel rapporto con l’infinito che il nostro cuore sembra inspiegabilmente contenere.

Infatti, i casi sono solo due: o ci siamo sbagliati, oppure se non ci siamo sbagliati (per citare Pacal) la nostra scommessa è la più seria e la più grande che ci sia e se abbiamo perso non abbiamo perso nulla, ma se abbiamo vinto abbiamo vinto la cosa più grande che esista.

Ma detto così, questo annuncio suona tanto importante quanto impalpabile e indimostrabile, appunto solo una scommessa nel senso di un cieco azzardo. Se la nostra fede fosse soltanto questo “che un uomo è stato visto ancora in vita dopo essere stato ucciso”, se fosse solo questo annuncio… io non avrò mai nella vita abbastanza elementi per dire se è vero o no, se è un inganno tramandato per duemila anni e vero solo perché continuamente ripetuto nella storia oppure se è una notizia bellissima.

Infatti, io non sarei qui e credo nessuno di noi sarebbe qui, se ci fossimo fermati a questo. Oggi credo che nessuna donna che perde l’uomo che ama, come per Maria in questo Vangelo, potrebbe smettere di piangere se non soltanto cercando di dimenticare o di distrarsi rispetto alla realtà tragica che vive. Non c’è via di uscita dal pianto, non c’è “dal pianto alla gioia vera”, c’è solo dal pianto alla “non pensarci più”.

Ma l’esperienza di incontro con Cristo –ed è questo il nostro kerigma e la nostra vera fede– non è l’azzardo cieco di Pascal, ma si radica nella nostra esperienza. O si radica in qualche modo nella nostra esperienza oppure sarà indecidibile per noi tutti, sarà un cieco buttarsi quasi a caso in una delle due scelte (credere o no) spesso prese per semplice tradizione o per convenienza o per vantaggio. Ma questo non è il kerigma! Il kerigma riguarda me e come dice Paolo è qualcosa che “anche io ho ricevuto” e di cui ho fatto esperienza!

Su questa esperienza di incontro con il Risorto, vorrei dire due cose che in questi anni in un lungo cammino ho intuito.

La prima è che si riconosce Cristo ancora vivo e operante nella nostra vita –proprio quel Gesù e non soltanto “uno spirito vago di bene” o qualcosa di simile– solo se lo si conosce. Spesso credo che non lo riconosciamo perché non lo conosciamo abbastanza, la parola di Gesù non è mai diventata la nostra, talvolta conosciamo il Vangelo come un sentito dire e non sapremmo dire “Rabbunì” (Maestro!) rivolto a Gesù, come disse Maria in questo testo. Maria lo riconosce perché sapeva chi era e perché l’aveva davvero amato e chiamato “maestro” per molti anni. Cristo c’è, ma non saprai riconoscerlo come Cristo se non conosci quel Gesù storico di Nazareth, gli darai magari altri nomi, ma saranno sempre impalpabili.
In questa Quaresima mi sono accorto che possiamo aver letto cento volte il Vangelo ma no saper dire sempre, come Maria, “rabbunì”. Anche per questo forse fatichiamo a riconoscerlo.

La secondo cosa che vorrei dire, sul fatto di poter riconoscere Cristo vivo nella nostra vita e nella storia (come in tanti l’hanno riconosciuto e lo riconoscono ancora oggi) è che il dilemma che sia tutta una nostra interpretazione, il dubbio che sia solo un nostro modo di autoconvincerci o un processo mentale… svanisce da solo nel momento che intuiamo che è vero.
Ci potrà venire dopo, per mille influenze e motivi, ma quando lo riconosciamo, in quel momento stesso, proprio come Maria quando sente pronunciare il suo nome così… allora non c’è ombra di dubbio, lo sappiamo benissimo dentro noi…
Lo sappiamo benissimo che era lui, che quell’annuncio è vero senza bisogno di andare a cercare noi chissà quali prove o indizi….  è una conoscenza sicura in quel momento: “dentro le cose, pensiero improvviso, la Tua tenerezza il tuo stesso sorriso”.

Il grande filosofo Martin Heidegger, nella sua baita nella Selva Nera, aveva inciso questo frammento di Eraclito: “il fulmine governa ogni cosa”. Non significa ovviamente che Heidegger fosse diventato pagano o credesse nella divinità del fulmine: credeva invece che l’unica forma vera di conoscenza, quella per cui possiamo maturare una certezza (la certezza che Cristo vive) non accade dopo un lungo ragionamento e lunghe deduzioni logiche, ma accadeva in un attimo, per intuito, perché colti da ciò che non prevedevamo.
Come per Maria quando sente pronunciato il suo nome come solo Gesù poteva pronunciarlo, come per Paolo folgorato sulla via di Damasco… come nella mia vita quando ho capito in una sera che Cristo mi chiedeva di fare il prete e che non era un gioco ma l’avevo incontrato davvero.
Dentro quell’intuizione irresistibile e infallibile che spesso mette in gioco tutta la vita (è una chiamata e tutti poi sono cambiati) io posso dire ancora oggi: nonostante tutto il buio che vedo so che Tu ci sei!
Eppure, dall’altro lato, questa intuizione, resterà sempre come il fulmine, come il “noli me tangere detto a Maria”… inafferrabile, mal del tutto fermabile ed esprimibile. Questo Cristo, sfugge e sfuggirà sempre alla nostra presa definitiva perché non è per possederlo o per noi che l’abbiamo incontrato.

Non è per noi, però io ho scoperto che questa nostra gioia “ci permette di difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile ragionevolezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto.” (Chesterton)