Domenica dell’incarnazione

Is 62,10-63,3b; Sal 71; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a

Il nostro rapporto con Dio è spesso vissuto in questo modo: io ho la mia vita, determino le miei avvenimenti e attraverso la mia spiritualità o la mia preghiera posso vivere in relazione con Lui, posso ottenere dei doni, posso avere la serenità ecc. Penso che questo modo di pensare sia quello più semplice e comune sul rapporto con Dio. Esso c’è sempre stato e non è diverso da quello dei pagani. Si vive la propria vita e poi si va al tempio per chiedere una grazia o un po’ di felicità; quasi che Dio vada convinto ad intervenire nei nostri giorni.

Il Vangelo di oggi ricorda però una iniziativa di Dio. Non è Dio che va convinto a mettersi al nostro fianco, ma è lui che –prima ancora che glielo chiediamo– sa di cosa abbiamo bisogno. Ricordate cosa dice Gesù a proposito della preghiera? “non fate come i pagani che pensano di convincere Dio a furia di parole, il Signore sa già di cosa avete bisogno”. Così questa pagina dell’annunciazione dovrebbe ricordarci sempre l’iniziativa di Dio rispetto alle nostre richieste.

Questa presenza che anticipa i nostri desideri (o li trasforma) si scontra però con l’ideologia che vorrebbe tenere separata la nostra vita dalle cose di Dio. Come dire: quello che ci capita è soltanto frutto di una serie di cause ed effetti oppure del caso, ma l’accadere non ha un suo senso né un suo rapporto con Dio. L’ipotesi che Dio voglia egli stesso intervenire non può che essere una lettura irrazionale e bigotta. Come dire: ciò che è oggettivo è che quell’incontro o quella situazione non abbiano una perché diverso dalla loro “causa materiale” (così la chiamerebbe Aristotele) né possano venire da Dio. Sospetto che confonde l’evidenza con una impersonale oggettività, quando invece ciò che era evidente (e per fortuna personalissimo) era che proprio tali eventi erano da me letti come “bene” di una storia.

Del resto non è così quando, per esempio, incontriamo qualcuno con cui iniziamo una storia bella? Cosa contiene quell’esperienza di fiducia e di bene se non le invocazioni inespresse: “grazie!” e poi “ancora!”. Ma invocazioni espresse a chi se non a Dio? Non riconosce la coscienza un bene che precede le nostre capacità e cause, un bene che era lì proprio per noi. Non dice forse la coscienza: “Tu eri sul mio cammino”? Non ha bisogno la coscienza di questo “Tu” trascendente per cogliere appieno la profondità della propria vita.

Il secondo tema è legato a questo. Cosa fa Maria che riconosce una inaspettata iniziativa di Dio? Prima di dire che accoglie il messaggio dell’Angelo bisogna leggere il testo. Cosa fa Maria? Maria fa la cosa che è propria di ogni uomo che rimanga un uomo: si chiede il senso. Perché un uomo che sia un uomo non si accontenta di vivere dei fatti, ma si chiede il senso di ciò che vive. Chiedersi il senso non è una operazione dei filosofi, ma quella capacità tipicamente umana di collegare l’istante che mi accade con una scena più grande della mia vita. Per questo l’uomo sa parlare di una storia e non si accontenta dei singoli eventi.

Chiedetelo in relazione al Natale. Si dice sia diventata una festa convenzionale. Ma cosa accade allora: che si festeggia solo per festeggiare, così come si vive solo per vivere (cioè si sopravvive). Chiedetevi invece il senso dei vostri cenoni, dei vostri ritrovarvi tra parenti. Cosa nascondono? sono il segno di una affetto reale? sono la convenzione che si ripete solo perché “si deve”? sono una cortesia di facciata? Come li collegate a tutto il resto della vostra vita?
L’uomo è tale quando non si accontenta di vivere (come gli animali), ma si chiede il senso del suo vivere, del suo cenare, del suo “fare regali”… Non diamo per scontato questo, perché io vedo questo rischio nascosto nello spirito mondano di questa festa: “si fa vacanza e si festeggia in realtà per far consumare, far girare l’economia e per far riposare gli uomini in modo che poi lavorino di più e meglio”. Così però accettiamo il fatto di essere trattati da meri “consumatori”. Ci va bene questo?

Interessante che Maria si chieda il senso. E il verbo greco con il quale è espresso questo “domandarsi che senso avesse” dice una cosa: non è stata una domanda istantanea, ma è stato un pensiero prolungato nel tempo. Il tempo greco usato nel testo originale indica chiaramente che questo “chiedersi che senso avesse” non è durato un istante, malgrado nella nostra immaginazione questa scena si sia fissata come un fatto di pochi minuti. Potrebbe aver richiesto un tempo lungo, come sarebbe lungo il tempo che ci impiegheremmo noi se prendessimo sul serio questo Natele che viene.