Dedicazione del Duomo

Is 26,1-2.4.7-8; 54,12-14a; Sal 67; 1Cor 3,9-17; Gv 10,22-30

Mi sembra che un tema comune a queste letture sia quello di trovare una solidità, una certezza. Paolo dice che la vita è da costruire su un fondamento solido, i giudei del Vangelo sono alla ricerca di una certezza che non riescono a trovare, nonostante abbiano tutti gli indizi necessari e Gesù risponde che c’è una certezza nell’esperienza dell’essere discepoli: nessuno li strappa dalla sua mano. La stessa parola “fede” nella radice ebraica ha a che fare con questa solidità o certezza.

E’ un tema molto attuale che va compreso. Oggi continuiamo a ribadire che la vita è complessa. In ogni tema che affrontiamo (dalla politica agli affetti, alla famiglia, alla fede) l’impressione è che non si riesca quasi mai ad arrivare ad una conclusione sicura e si dica sempre “è complicato!”. Tutto questo ha certamente una sua verità, ma non può dominare tutta la scena della vita. Io penso che sia un’esigenza insopprimibile quella di poter contare su qualcosa, di fare l’esperienza di qualcosa di sicuro, di solido, l’esperienza di un “incondizionato”. Penso, ad esempio, che l’esperienza di un incondizionato affettivo sia un’esigenza fondamentale per un ragazzo. Se chiedo, ad esempio, a un ragazzo qualsiasi cosa sia una vera amicizia quasi tutti mi rispondono: l’amico è tale quando non ti abbandona, quando c’è nel momento del bisogno. E’ interessante, perché nella sua semplicità, questa risposta indica ancora il bisogno di una certezza, di un incondizionato.

Un giorno raccontavo in una classe la fiaba dei tre porcellini. La raccontavo per spiegargli come ci sono racconti apparentemente banali che in realtà contengono delle verità profonde. Sappiamo tutti cosa accade: il primo porcellino fa una casa di paglia e all’arrivo del lupo (simbolo del male) questa crolla. Un secondo la costruisce di legno ma anch’essa crolla, fino a quando il porcellino più intelligente pensa di farla solida e di mattoni e in tal modo il lupo non è in grado di abbatterla. Finisco di raccontare la storia, quando un ragazzo alza la mano e dice: “don, che brutto finale”. “Perché?” domando, “perché doveva venire un uragano e abbattere anche quella di mattoni”. Mi fece impressione questa risposta. Che tipo di esperienza aveva alle spalle quel ragazzo per non riconoscere nulla di solido? Poi l’ho scoperto: semplicemente non aveva una famiglia, non sapeva se, tornato a casa, qualcuno gli avrebbe preparato da mangiare, non era più certo neanche di quella esperienza fondante della famiglia.

E per noi: quel’è la certezza cristiana che possiamo dire un “incondizionato”? La certezza per cui siamo qui? Io penso che non siamo qui per pregare. Per pregare si può anche rimanere a casa. Siamo qui per la Pasque di Cristo, ovvero per quella certezza che ci fa immerge nel mistero della morte e della resurrezione di Cristo. E’ la dinamica che vive Pietro. Pensate quante volte è stato rimproverato, quante volte ha tradito e quante volte si è dovute rendere conto che quella sua “fine” non era la fine, ma la partecipazione al mistero di Cristo.
Come dicevano i Padri della Chiesa, la vita della Chiesa (come la nostra fede) è come la luna: ha una fase calante, una crescente e una splendente. La fase calante della vita è come l’inverno dove tutto sembra morto e invece non ci accorgiamo che un seme si nasconde sotto il terreno.
Il concilio vaticano II diceva che lo Spirito santo, in modi che noi non conosciamo, agisce nella vita di ciascuno di noi non “facendoci conoscere che Dio c’è”, ma facendoci vivere una dinamica pasquale, una fase calante, crescente e splendente perché ognuno possa attingere a una verità più profonda di sé. E perché non rimaniamo in balia delle varie fasi (tristi o belle che siano) come a degli umori della vita, quasi fossimo privi di alcuna certezza.