Dedicazione del Duomo di Milano

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Mi chiedo se Gesù non avesse avuto paura prima di fare questi gesti. Cacciare i mercanti che erano lì da tempo (per un motivo) e rispondere male ai capi della città… non sono gesti che non hanno conseguenze. Come fa uno a non avere paura? Se io fossi vissuto a quel tempo, forse avrei potuto vedere e capire qualcosa delle ingiustizie praticate proprio nel tempio… ma non avrei mai avuto il coraggio di fare quello che ha fatto Gesù, semplicemente perché bloccato dalla paura.

Le risposte come: ma Gesù era il “Figlio di Dio” oppure, “Gesù sapeva di risorgere”… non sono risposte che mi aiutano a capire. Troppo facile dire così e sopratutto inutile a me stesso. Osservo invece che è la stessa difficoltà che provo e la stessa domanda che mi pongo quando sento la storia di uno come don Pino Puglisi: strappare i ragazzi del suo quartiere dalla strada gli era costato diverse minacce. Don Pino non aveva paura? Io ne sarei stato paralizzato.

La mia risposta (ma è una mia interpretazione) è che Gesù, come don Pino e come molti altri, hanno avuto paura, esattamente come l’avrei io. Non credo che Gesù quando dice a Pietro “se vuoi puoi andartene” non lo dicesse con il cuore in mano, nella paura di essere lasciato. Oppure, quando dice: “il Figlio dell’uomo troverà ancora la fede sulla terra?” lo dicesse senza un pizzico di paura o, ancora, quando “suda sangue” al Getzemani lo faccia non per paura di quello che gli accadrà da lì a poco. Sinceramente, credo che pregasse il Padre anche spinto dalla paura. Per esempio, perché dobbiamo credere che la preghiera non abbia a che fare con la paura? Sarebbe un male confessare la propria fragilità o il proprio bisogno di aiuto? La paura, in fondo, è anche una potente forma di conoscenza della vita, attraverso la paura è come se qualcuno ti dicesse: stai entrando in un territorio che non puoi controllare.

La questione allora diventa: come si cambia la paura che ti paralizza nel coraggio che ti fa agire ugualmente (il coraggio non è assenza di paura). E’ una domanda molto attuale: molti ragazzi sono paralizzati dalla paura (non si decidono o restano passivi), magari anche per cose belle come innamorarsi o permettere di essere amati. E anche l’ansia è una forma di paura (si dice una “paura senza oggetto”) molto presente. La risposta la vedo in questo brano di vangelo: c’è una violenza, una aggressività che cambia la paura in coraggio. Non si possono fare certe cose se non con una certa carica di aggressività, se non facendo prima un “urlo di battaglia”. Come Gesù, quando decide di andare a Gerusalemme e, siccome non ci va come per andare al Carrefour, ma sa che lo uccideranno, il testo dice “rese il suo volto duro come la pietra”. Serve questa violenza, come anche fa in questo testo che risponde ai sacerdoti in tono tutt’altro che amichevole.

Chi segue i ragazzi sa che la violenza è fondamentale allo sviluppo della persona. Mi viene però da dire che è fondamentale in qualsiasi età e non va in sé stigmatizzata o confusa come la “cattiva violenza”. Un po’ di violenza può aiutare a farti fare un salto, a credere in qualcosa di buono, ad affrontare qualcosa di difficile. Può proteggere persino qualcuno, come Gesù che quando viene catturato fa un passo in avanti e spaventa le guardie per proteggere i discepoli e dire: “se cercate me prendete me”, in modo che gli altri possano scappare via. Questa aggressività non è male e sono dell’idea che essa non sia un sentimento negativo, ma vada anch’essa evangelizzato e non cancellata: Per cosa metto la mia violenza? Per chi la uso? Per proteggere i miei interessi o le mie opinioni, oppure per difendere qualcuno più debole, per una idea giusta?

In ogni caso, senza aggressività si rimane incapaci del coraggio per i propri desideri. Ma attenzione, siccome non è possibile eliminare questa violenza (fa parte della vita), si finirà alla lunga per essere aggressivi in altro modo: magari acidi e freddi con la moglie o con i figli, magari spettegolando alle spalle di qualcuno, magari mettendo un chilo di sale nella minestra della suocera… E’ anche questa aggressività, ma non spesa per qualcosa di buono, non al servizio di una verità (i mercanti scacciati dal tempio). Invece, per esempio, anche l’ironia è una forma di aggressività, c’è spesso molta aggressività quando facciamo una battuta, magari su noi stessi… però è aggressività “evangelizzata” cioè che usiamo per qualcosa di buono.
Senza che l’aggressività venga messa al servizio di qualcosa di buono, si resta dietro al “vetro” della vita, alimentando frustrazioni, senza fare mai delle vere scelte. Mi viene in mente un famoso brano di Kafka che descrive l’incapacità di “aggredire la vita”, di agire per qualcosa di desiderato ed essere così capaci del rischio delle nostre scelte.

Sono ritornato, ho attraversato l’ingresso e mi guardo intorno. È il vecchio cortile di mio padre. La pozzanghera nel mezzo. Attrezzi vecchi, inservibili, intricati tra loro ostacola­no il passaggio alla scala del solaio. Il gatto sta in agguato sulla ringhiera. Un panno a brandelli, avvolto un giorno per giuoco intor­no a un palo, si agita al vento. Sono arrivato. Chi mi riceverà? Chi aspetta dietro la porta della cucina? Dal camino esce il fumo, si sta bollendo il caffè per la sera. Ti senti a tuo agio, senti di essere a casa tua? Non lo so, sono molto incerto. E la casa di mio padre, ma freddi stanno gli oggetti l’uno accanto al­l’altro, come se ciascuno badasse ai fatti suoi che in parte ho dimenticati, in parte mai co­nosciuti. Pur essendo figlio del babbo, del vecchio agricoltore, come potrò essere utile, che cosa sono per loro? E non oso bussare al­la porta della cucina, ascolto soltanto da lon­tano, da lontano sto in ascolto, in piedi, ma non in modo che mi si possa sorprendere a origliare. E siccome ascolto da lontano, non afferro nulla, odo o credo forse soltanto di udire un leggero ticchettio d’orologio che pa­re mi giunga dai giorni dell’infanzia. Ciò che si svolge in cucina è un segreto di coloro che vi stanno e che me lo nascondono. Quanto più si indugia fuori della porta, tanto più si diventa estranei. E se ora qualcuno aprisse la porta e mi rivolgesse una domanda? Non sa­rei io stesso come uno che voglia custodire il suo segreto?