Dedicazione del Duomo

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Giovanni scrive cosa accade a Gesù durante la festa della dedicazione del Tempio di Gerusalemme. Subito precisa che “era inverno”, precisazione superflua e sorprendente dal momento che la festa cadeva sempre in inverno e che finora l’evangelista non aveva mai indicato la stagione di nessun’altra celebrazione. Questo induce a pensare che la notazione abbia un’altro significato: un tempio freddo, lontano dalla gente, una religiosità secca e sterile che sta per morire.
Viene da chiedersi se ogni tanto anche la nostra Chiesa non sia in questa stagione invernale. Una Chiesa che vede i giovani ormai assenti abituali. Mi diceva un ragazzo questa settimana: “don, non vengo a messa non perché non sia credente, ma perché le tue preghiere, i tuoi incensi e le tue musiche sono per me freddi, impersonali… non mi coinvolgono, non parlano al cuore”. Forse anche noi siamo un po’ “in inverno”.

Tuttavia, anche i giudei di questo Vangelo non stanno bene, mostrano segni di insofferenza. Liturgie prive di comunità, dove solamente “si prende la messa”, ma non ci si riconosce come amici, come popolo… saranno sempre liturgie “invernali” che ci lasciano un po’ insoddisfatti. Tuttavia, non muore mai dentro di noi il desiderio di altro: di essere gregge, di trovare una appartenenza così forte che “nulla ci potrà separare” (neanche la distanza di chi va all’estero). Una appartenenza che “nulla può strappare” delle mani del Padre, dice Gesù. Se non abbiamo la grazia di viverla, tuttavia è ancora vivo il desiderio di trovarla. Chi ne fa esperienza sa che non dipende neanche della qualità dei “canti”, o della predica né dal “dove” ci si trova: “nessuno le toglie del tutto dalle mani del padre”.

Invece, a essere “di nessuno”, senza radici e senza gregge, ci si sente soli alla lunga. Molti ragazzi sui trent’anni che hanno perso i propri legami solidi di appartenenza si sentono oggi né carne né pesce. Si sentono come questi giudei, ovvero “in sospeso”, in perenne “dubbio”. Perché la voglia e la necessità di essere “popolo” è dura a morire. Molti segni di oggi lo raccontano: la festa del paesi, le mille iniziative che ci radunano e ci invitano a non starcene in casa… Senza un gregge, senza la certezza di una appartenenza solida, senza qualcosa di sicuro, siamo tutti un po’ “foglioline autunnali”.

Nella festa della dedicazione si ricorda anche il Duomo di Milano. La madonnina che lo sovrasta mi fa pensare che abbiamo tutti bisogno di questa protezione, di questa certezza. Anche chi in Chiesa non ci entra più spesso ne nutre ugualmente il desiderio. Quando a Milano si sono cominciati a costruire i primi grattacieli, non si poteva superare l’altezza della madonnina. Era Lei, dai suoi 108 metri, a dover proteggere i milanesi. Così, quando è stata costruita la Torre Velasca, uno dei primi “grattacieli” della città, si è decisi di fermarsi a 106 metri, per rispetto al Duomo. Quando tuttavia, questa norma non poteva più fermare l’altezza dei nuovi edifici, si è arrivati a spostare la madonnina stessa (una sua copia) sull’edificio più alto della città. Così, dopo essere stata sul Pirellone e poi sul nuovo palazzo della regione, oggi si trova sul grattacielo di Isozaki (Allianz) che è anche il grattacielo più alto d’Italia. Una vicenda che mi ricorda quanto sia difficile far morire del tutto il senso di appartenenza alla Chiesa, il desiderio di essere un popolo, anche per chi non frequenterà mai l’inverno della nostra Chiesa, ma è disposto a usare persino il tetto del suo ultimo grattacielo.