Caravaggio. I serata

00001Vorrei iniziare da questo quadro per dire il senso di queste serate. Ho tenuto la riproduzione di quest’opera nel mio studio, di fronte alla mia scrivania, per molto tempo e fino all’ultimo giorno non sono riuscito a togliermi il fastidio di quel dito che entra nella carne. Come forse sapete, il quadro rappresenta l’episodio dell’incredulità di Tommaso che viene ammonito da Gesù perché metta il dito nella sue piaghe e tocchi il suo costato, affinché non sia più incredulo ma credente. Tuttavia, nel testo del Vangelo non è raccontato che questo avvenga davvero, anzi, data l’immediata risposta di Tommaso “mio Signore e mio Dio”, sembra proprio che Tommaso non compia un tale gesto. Qui, invece, il gesto c’è ed è esasperato dallo sguardo sbarrato di Tommaso che sembra non vedere abbastanza bene, tanto da dover toccare.

Questo dito nella carne, “fin troppo realistico” e che continua a colpirci anche se cerchiamo di guardare altrove, è per me il senso di tutto il lavoro artistico di Caravaggio nella sua vita: toccare il reale fino a penetrarlo. Il suo realismo estremo non è solamente una buona copia della realtà, ma il tentativo di “scavarla”, di “penetrarla” in tutta la sua fisicità, come se solamente nella contatto diretto con la realtà umana l’uomo scoprisse il suo mistero. Come se l’uomo non fosse chiamato a volgere lo sguardo altrove, ma ad andare nella profondità della realtà di ciò che vive. Due frasi spiegano meglio questo “dito nella carne”. La prima è del teologo C. Theobald che in suo libro si chiede cosa significhi credere in Cristo e la sua risposta è: “scoprire la complicità tra il vangelo di Dio e il mistero della natura dell’uomo”, ovvero “l’unicità del modo di Cristo di toccare ciò che è umano, fin troppo umano”. La seconda frase viene dalla lettera agli Ebrei: “Gesù Cristo imparò l’obbedienza (ovvero la sua relazione con Dio) dalla cose che patì”. Dunque la fede nasce dal contatto caparbio con la realtà umana, “fin troppo umana”, di noi stessi esattamente la dove nascono le ferite e i tagli della vita.

02Per capire meglio cosa significhi tutto questo nella vita di Caravaggio dobbiamo raccontare qualcosa di lui, del suo contesto storico e delle sue opere. L’immagine che vedete è quella di un libro molto importante che è stato ritrovato appena qualche anno fa. Come facciamo noi a sapere quando era nata una determinata persona nell’antichità? Attraverso i registri di battesimo che sono stati l’unico mezzo di censimento della popolazione: la cristianità ha permesso di trasmettere tanti dati della storia proprio perché riteneva “immortale” la data della nostra rinascita, tanto conservarla con grande cura. Così sappiamo, da poco, che Michelangelo Merisi è nato a Milano da Lucia e Fermo (come i Promessi Sposi, ambientati di fatto solo pochi anni dopo la nostra vicenda) nel 1571.
Passerà tuttavia alla storia con il nome di Caravaggio, dal paese di origine dei suoi genitori, paese dove trascorre anche alcuni periodi della sua giovinezza, proprio perché è appena morto, da meno di un decennio, il pittore che prima di lui portava il nome Michelangelo e la cui fama oscurerebbe quella del giovane milanese.

06Cosa significava nascere nel 1571 a Milano? Milano era una città grande per il tempo (180.000 abitanti, quasi il doppio di Roma) e anche molto caotica, attraversata da tre fiumi, era famosa per un circuito di canali e darsene che permetteva grandi commerci e trasporti su grosse chiatte. Un immaginario di trasporti marittimi così forte da ingannare Sheakspere, nella Tempesta, da pensarla proprio come una città sul mare. Oltre a questo grande traffico, due cose sono fondamentali da capire al tempo di Caravaggio: gli spagnoli e San Carlo Borromeo. Milano, dal 1535, è sotto il dominio degli spagnoli che vessano gli abitanti di gabelle e privazioni spesso imposte con la violenza. Il castello è una grande fortezza che contiene migliaia di soldati pronti ad intervenire nelle campagne come nelle locande della città. La fortuna del Caravaggio, nonostante la morte del padre e del nonno (magister della fabbrica del Duomo?) a causa probabilmente dell’epidemia di peste, è quella di essere legato al più autonomo marchesato di Caravaggio e alla vedova Costanza Colonna (marchesa dalla morte del marito Francesco Sforza) che gli permetterà protezione fino alla fine della sua vita. Tutto questo grazie al nonno materno che si occupava lavorava come amministratore della famiglia. Questo gli permetterà anche di vedere, fin da bambino la ricostruzione del suo santuario e le nuove pitture di Bernardino Campi.
07 cerano san carloIl secondo aspetto, più importante, è quello della grande influenza, in quegli anni, della figura del vescovo San Carlo Borromeo. Le novità portate da questo vescovo saranno un bagaglio indispensabile all’intera arte e spiritualità di Caravaggio. Anzitutto San Carlo e la Chiesa milanese del tempo furono un generatore di opere di Carità contro lo strapotere degli Spagnoli (tanto da imporre al vescovo una guardia del corpo dopo un subito attentato). San Carlo fa aprire due case per le prostitute (Santa Valeria e Santa Maria Eciziaca), chiama le Orsoline da Brescia per insegnare a leggere e a scrivere alle ragazze madri, fonda un fondo di Carità per i bisognosi (un Monte di Pietà), elimina le gabelle più pesati nei suoi territori, detta gli statuti della compagnia della Carità da attuarsi in ogni parrocchia, fonda l’orfanotrofio delle Stelline, altre case per 4500 posti, fonda gli Oblati, i seminari, visita 5 volte le 1500 chiese della diocesi, non si allontana durante la peste (malgrado la morte del suo segretario)…
Ma la sua riforma è altrettanto forte in ambito culturale: crea le sacre rappresentazioni e il teatro sacro (fondamentale per capire le scenografie di Caravaggio), fa costruire i Sacri Monti, scrive un libro direttamente per i pittori e gli artisti dove si dice il nuovo principio della controriforma che io tradurrei così: il pittore cristiano non è quello che non fa peccati ma che “imita le cose nel naturale” per farsi capire da tutti, colui che è fedele alla verità storica e la mostra in un libro popolare… “una pagina dipinta in modo che possa saziare il gusto di tutti, nobili e poveracci, dotti e ignoranti, toccandoli davvero dentro“. Questo è davvero il senso di tutta la pittura di Caravaggio, fedele discepolo di San Carlo, da capire che la questione dell’arte era questione degli affetti. Su questo registro si muoveva infatti l’intuizione della controriforma: l’incontro con Cristo muove tutto l’umano fino alla cosa più profonda che abbiamo, ovvero gli “affetti”.

Fin qui, non abbiamo ancora detto nulla sulla vita di Michelangelo che, non sappiamo come, a 13 anni ha già deciso cosa fare della vita. Mentre suo fratello minore andrà prete, lui diventerà pittore. Così vive, sotto pagamento, da un buon pittore milanese di indiscussa fama che gli insegna il mestiere: Simone Peterzano. L’incontro con questo maestro è certamente decisivo anche perché Peterzano si firma nelle opere “alievo di Tiziano” ed è dunque carico di tutte le novità della pittura veneta. Probabilmente proprio da questo maestro ha notizia, per esempio, di Giorgione e della sua “vecchia” così simile alla vecchia serva del futuro quadro su Giuditta. Passati quattro anni vende dei terreni per vivere fino a quando, compiuti ormai i 21 anni, decide di andare a Roma dove tutti gli artisti sognano di andare. Vende i suoi terreni e, con pochi soldi in tasca, ma forse con l’aiuto di Costanza Colonna, parte per Roma. Siamo nel 1592

10Roma è un’altra città in grande fermento. Dopo il sacco del 1527 la popolazione sta ritornando a crescere, nonostante le carestie cicliche e passa da 30.000 abitanti a 100.000. Ma i pellegrini che vengono da tutto il mondo fanno salire di molto la popolazione reale (nel giubileo del 1600 se ne conteranno 3 milioni). Ci sono 5 carceri affollati del 5% della popolazione e assassini, decapitazioni, furti ecc. sono all’ordine del giorno.
Sisto V, morto da poco, aveva iniziato un enorme programma di rifacimento dell’intera città, collegando le Basiliche e chiamando tutti i migliori artisti e architetti (il Fontana in testa). Ma la riforma è anche fortemente spirituale. Non potremmo capire Caravaggio senza avere in mente Ignazio di Loiola e il suo popolarissimo libretto “gli Esercizi Spirituali” e gli oratori di San Filippo Neri, proprio contemporanei all’arrivo di Caravaggio nell’urbe.
Il primo è un libro dove si dice, tra le altre cose, che per capire appieno il vangelo è necessario fare una “composizione di Luogo” ovvero ambientarci noi come se fossimo dei contemporanei della scena: è il metodo seguito per filo e per segno in tutte le opere del pittore dove i protagonisti vestiti in abiti contemporanei sono affianco a Gesù con i costumi storici del tempo. San Filippo è invece il promotore, per esempio, a Roma della visita artisitco-spirituale delle 7 Chiese e della congregazione degli artisti di Santa Lucia con sede al Pantheon, frequentata assiduamente da Caravaggio con il suo amico Mario Minnini, come attestato da documenti: il primo che attesta la presenza di Caravaggio a Roma è un turno di adorazione eucaristica in questa confraternita.

12Dopo il breve soggiorno da “monsignor insalata”, così soprannominato dall’artista a causa della dieta, gira un paio di atelier, fino ad arrivare ad uno degli artisti più rinomati chiamato il Cavalier D’Arpino (dipinge tra l’altro il soffitto della Cappella Contarelli, poi data in mano a Michelangelo). L’aspetto non deve essere stato molto accogliente, visto anche il fatto e Caravaggio non si fermò molto, ma grazie al sequestro delle sue opere (voluto da cardinal Scipione proprio per impossessarsi di due opere del nostro artista), abbiamo le prime opere dipinte dall’artista nella sua bottega: il Ragazzo con canestro di frutta e il Bacchino malato.

Sono convito che le prime opere di Caravaggio siano caratterizzate da due temi forti: le pitture etiche (morali) e la tematica amorosa. Sono questi anche due temi cardine della catechesi e della vita cristiana di un ragazzo poco più che ventenne. Le pitture etiche sono pitture apparentemente soltanto piacevoli o prive di un vero tema, ma che nascondo un insegnamento morale sulla vita: quasi sempre sul tema della vanitas, della improvvisa morte, della caducità della vita e della sua precarietà. Sembra che che Caravaggio avesse in mente il libro biblico del Qoelet o il capitolo secondo del libro della Sapienza. Ma dietro rileggiamo anche tutto l’insegnamento morale del vescovo di Milano. Non è tuttavia un genere consueto: gli artisti sono soliti dipingere fiori o frutti o nature morte, ma in nessun artista è così evidente un aspetto morale o un preciso valore simbolico. Diciamo che erano più soliti dipingere quadri decorativi che pitture etiche.

15Questo quadro rappresenta un ragazzo che ci fa dono di un canestro di frutta. Cosa possa significare questo soggetto ha fatto molto discutere gli storici dell’arte. Da una rappresentazione del tema del gusto o dell’autunno (con altri quadri andati perduti?) a una metafora di Cristo Cristo che viene a noi con il dono della vita che è come un frutto che destinato alla morte (Calvesi). Senza troppe forzature, mi limiterei a dire che il tema mischia volutamente sacro e profano ed è innegabile un riferimento alla caducità e alla vanità della vita. Si nota questo carattere morale in tutti i dipinti con cesti di frutta. Il più eclatante è quello del famoso Canestro di frutta.

18Solo apparentemente un semplice canestro di frutta, il Caravaggio ci sfida in un ampio discorso simbolico. Una prospettiva frontale inconsueta e insolita indica l’importanza di un soggetto che è più di una semplice natura morte che vediamo dall’alto al basso, appoggiata su un tavolo. Il canestro è sporgente, e in bilico (lo stesso canestro nel quadro della cena di Emmaus) perché in bilico è la nostra esistenza, affidata alle intemperie delle circostanze del vivere che sempre la possono scuotere. Il canestro è scentrato, ma centrato se consideriamo anche i tralci appassiti sulla destra: tutto fa parte di esso, anche i rami più marginali e accidentali, anche le foglie secche. E i frutti, che appaiono maturi, visti da vicino sono marci e bacati. Le foglie sono bucate dagli insetti, la mela marcia nasconde quella migliore, i fichi sono ormai sfatti (Amos), l’uva ha diversi acini andati a male. Ma tutto è su un fondo oro che richiama l’oro delle pale degli antichi: tutto è nella luce che è la gloria, che è la presenza di Dio. Sembra di leggere le pagine migliori e taglienti sulla finta ricchezza presenti nel libro di Amos. Federico Borromeo che acquistò il quadro non trovò mai un pendant all’altezza.

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Il Bacchino malato è un autoritratto del pittore, probabilmente uno degli ultimi dipinti nella bottega del Cavalier d’Arpino. Caravaggio si ritrae malato, forse veramente malato a causa di una ferita alla gamba. Certamente viene ricoverato nell’ospedale dei poveri di Roma. Bacco, il simbolo del piacere e del godimento, ha un’aria malinconica e neanche il raspo di uva gli da soddisfazione. L’edera che ha sulla testa è sfatta, l’uva bianca (simbolo della vita) e l’uva nera (simbolo della morte) non sono più il piacere dell’ebrezza, ma quasi una medicina curante. Ancora una volta il tema della vanitas della vita, come risposta a chi trova nel piacere la soluzione al vivere.

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Così anche l’istante violento del morso di un ramarro ricorda la possibilità di una morte improvvisa anche a chi, fino a poco prima, vestiva con abiti belli e si adornava i capelli con fiori colorati. E’ l’istante del dramma che interessa sempre Caravaggio: non un attimo prima né un attimo dopo perché è solo quell’istante dell’ “ora” che svela la presenza di una verità, di un contenuto, di una morale in grado di muovere gli affetti, di instaurare la vera pietà. Il resto della storia è conseguenza, ma l’istante del dramma è anche l’attimo della decisione.

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Con il quadro delle Stigmate di San Francesco, Caravaggio arriva a toccare per la prima volta il tema sacro. L’iconografia è rivoluzionata: non più i fasci di luce che partendo dal Cristo penetrano il corpo di San Francesco, ma il sonno del santo nel momento esatto del suo risveglio. Non le stigmate dei chiodi ma la ferita del costato. Non un santo in ginocchio, ma un Cristo deposto dalla Croce sorretto da un volto di Angelo che ha molto di femminile (avrà forse visto la Pietà dell’altro Michelangelo?). Il tema è la ferita al Costato, il legame tra l’amore sacro e l’amore profano, la nostra somiglianza a Cristo. Non a caso, frate Leone è rappresentato nel buio del bosco a fianco di una scena di pastori che alludono alla natività.

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Lo stesso angelo è il protagonista del quadro Riposo durante la fuga in Egitto. Di nuovo il tema è il legame tra l’amore di Dio e il nostro umano volerci bene. A sinistra la stanchezza di Giuseppe che sorregge lo “spartito di Dio”, mentre si accavalla i piedi per ilfreddo, seduto sui bagagli fatti in fretta (la bottiglia malamente tappata), giacendo su un terreno fatto di sassi, con un asino alle spalle che spia anche lui la strana musica. Sulla destra una madre che dorme cullando il suo bambino, dove la stanchezza ha fine, la vegetazione rispunta (tutti i simboli della passione nelle piante) e i solo sta spuntando di nuovo. La musica è stata recentemente decifrata: è una composizione fiamminga sul cantico dei Cantici e il testo dice: “Quanto sei bella e quanto vaga, o mia carissima prediletta! La tua statura assomiglia a una palma, e i tuoi seni a grappoli d’uva. Il tuo capo è simile al monte Carmelo, il tuo collo a una torre eburnea. Vieni o mio diletto, usciamo nei campi, vediamo se i fiori hanno generato i frutti, se sono fioriti i melograni. Là ti darò il mio seno”. Il violino suonato dall’angelo è stato dipinto con una corda spezzata che starebbe ad indicare, simbolicamente, la precarietà e sterilità dell’amore umano che attende ancora Gesù Cristo (simboleggiata da Giuseppe). L’uomo può solo attendere di imparare dall’amore di Cristo e nel frattempo sostenere lo spartito di una musica che un Angelo suonerò per lui (Caravaggio sapeva cantare e suonare la chitarra), mentre attende l’affetto di Cristo.

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La buona ventura e i Bari, sono due quadri che permetteranno a Caravaggio di vivere nel palazzo del Cardinal del Monte e di rimanere sotto la sua protezione. Probabilmente il cardinale adocchia i suoi quadri in una galleria vicino a San Luigi dei Francesi, in ogni coso ne resta folgorato e diventa il grande protettore dell’artista. Sono due folgoranti spettacolini teatrali che si fanno gioco della ingenuità umana. Ammonimento alla vigilanza attraverso il topos della malizia-ingenuità. Interessante che nei Bari i due giovani siano lo stesso modello: non solo veniamo ingannati dagli altri, ma siamo in grado di ingannarci da soli, nascondendo a noi stessi delle verità nella vita.

25-Testa_di_Medusa

Ecco allora l’urlo che sempre nella vita riemerge. E’ tutta una serie sulle teste mozzate, altro tema che tormenterò il pittore tutta la vita. Non è soltanto la rappresentazione della violenza alla quale forse assisteva tutti i giorni, ma, molto di più, è il grido di ribellione per una vita ingiusta.

 

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Caravaggio alza il rosso del sipario della nostra tragedia, mostrando la (sua) vita fatta di ripetute violenze e ingiustizie. All’inizio il volto della fanciulla (Giuditta) ancora schifata dall’uccisione di un uomo (Oloferne), quindi la vecchia soddisfatta, le cui rughe del volto non esprimono più lo il ribrezzo della giovane, ma la soddisfazione della vendetta (è questa anche -stilisticamente- una gara con Giorgione). Ma in quella testa mozzata c’è la testa dell’artista che sempre ricompare nelle sue opere, monito di un male dal quale non sa liberarsi da solo.

25Così anche nel primo dipinto di Davide e Golia, tema molto caro al pittore e più volte ripetuto. Anche qui, il volto del cattivo Golia non è altro che l’immagine stessa dell’artista. Il pungo destro, in basso, la mano che stringeva i pennelli dando forma al suo dipingere. Davide è colto nell’atto di fare un trofeo con la testa del suo avversario. Tutto sembra indicare la coscienza del male che Caravaggio vedeva nella sua stessa vita. Dice San Paolo nel cap. 7 della Lettera ai Romani: “Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento. Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?