Battesimo del Signore

Is 55, 4-7; Sal 28; Ef 2,13-22; Lc 3,15-16. 21-22

Faccio due considerazioni. La prima riguarda un certo modo che abbiamo di pensare. Siamo stati abituati a pensare che ciò che è universale, ciò che vale per tutti e che unisce tutti gli uomini, non può che essere qualcosa di astratto e non qualcosa di storico che ha per noi meno valore. Molti ragazzi hanno assorbito questo pensiero, che deriva da una certa ideologia nata con l’illuminismo, e dicono: io non credo a Gesù Cristo come Dio, non credo in nella centralità di una storia e di un uomo, ma credo ai valori cristiani. Perché? Perché i valori (l’amore, la pace, il rispetto) sono considerate realtà davvero universali e trasversali, possono unire la vita della nonna con quella de ragazzo, mentre una storia è necessariamente particolare, è limitata. Una storia è singolare e dipende dal contesto. Credere a Gesù come il Cristo significa dare troppo peso a un certo contesto limitato, mentre i valori astratti sono sentito come universali.

Non è forse qui la nostra fatica a credere in Cristo? Dio, che ci hanno abituato a pensare come entità astratta e universale per eccellenza, non può coincidere con una storia di un uomo concreto, può invece significare come un valore. Per molti è così e anche l’eucaristia o il battesimo perdono il loro significato “memoriale” per acquistare un significato “valoriale”. Non si ricorda una storia, un volto, un uomo (cose troppo particolari) si cercano delle belle parole che trasmettano valori universali.
Tuttavia questo pensiero (che l’universale siano i valori astratti) è in realtà assolutamente falso. Anzitutto, di un Dio così astratto e universale non sappiamo cosa farcene. Dio, dice Gesù, è il Dio di una storia: è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e non il Dio dei valori (o “dei filosofi” per dirla con Pascal). In secondo luogo i valori astratti non esistono, sono puri nomi privi di significato e non è questo il modo di incontrare una verità.
Ciascuno di noi non sa nulla dell’amore o della pace fin tanto che non incontra quella ragazza o quel ragazzo concreto con il quale inizia una storia ecc. Non ci si innamora dell’amore, ma di una persona con un nome e un volto. Non esiste il Dio astratto: esiste quel Dio che ho pregato e incontrato e del quale quelle persone mi hanno parlato, con il loro volto e la loro testimonianza. Non esiste “la paternità” fintanto che non hai quel figlio che ha un nome e ti fa tanto patire…
Detto in altri termini: ciò che ci unisce universalmente (ciò che ci lega persino alla nonna) non è un valore astratto, ma il fatto che cogliamo una comune destinazione, una comune promessa che attraversa la singolarità di ogni esperienza, senza tuttavia eliminare l’esperienza stessa: perché per un marito innamorato non c’è l’amore senza il nome proprio della sua donna o dei suoi figli. E non li sostituirebbe con nulla.

Se capiamo questo, capiamo la farsa che pretende di rendere universali idee astratte che sono in realtà parole vuote e inutili. Mentre il cristianesimo è tutto incarnato al punto che crediamo che in paradiso ritroviamo non l’amore, ma proprio il figlio e il padre o la madre amati. Ritroviamo Gesù e Pietro e Paolo e Giovanni… non dei valori, ma proprio loro!

Il secondo pensiero riguarda l’essere figli. Nell’esperienza del Battesimo si rivela l’essere figlio di Gesù che dipende da una relazione particolare e unica con il Padre, relazione definita qui “amatissima”, si capirà poi come “incondizionatamente amato”. Nel portale di San Zeno il battesimo di Cristo è legato al perdono incondizionato di Gesù alla donna adultera che tutti volevano condannare.
Mi sembra interessante questo punto: la percezione del nostro essere figli dipende dalla percezione di un amore incondizionato, dall’esperienza di una incondizionatezza. Non sei figlio se sei bravo, se giochi bene a calcio, se fai bene ingegneria e trovi lavoro… No, sei figlio in ogni caso, senza me e senza se.
Noi oggi abbiamo molti ragazzi che esprimono il disagio di non avere dei veri padri. Ci sono oggi molti giovani che si sentono orfani nel profondo. Non perché non abbiano dei genitori fisici né perché i loro genitori non gli vogliano bene. Ma perché non hanno mai fatto una vera esperienza di incondizionatezza. Cosa intendo? Che a parole molti genitori dicono: ti amo comunque. Ma in realtà fanno dipendere la loro felicità, il loro stare bene, dalla realizzazione del figlio, dalla performace che gli chiedono. Se fanno il liceo classico li vedi con il sorriso, se fanno i parrucchieri iniziano a chiedersi “dove ho sbagliato?”. Perché questi genitori dipendono dai risultati del figlio, vivono legati al loro successo e crollano con i loro primi insuccessi. E un figlio non vede un adulto incondizionatamente solido e amante. Avete in mente la scena di alcuni genitori a bordo campo a vedere la partita di calcio del figlio? Bene, ucciderebbero l’arbitro o l’allenatore perché “non l’ha fatto giocare abbastanza”. Un figlio così con quale stress da performance crescerà? Quale esperienza di amore incondizionato potrà solidamente avere di fronte? Al contrario penserà che la felicità dei genitori dipende da lui. E così resterà orfano e cercherà altrove un’esperienza concreta di quella paternità mancata.