Ascensione del Signore

At 1,6-13a; Sal 46; Ef 4,7-13; Lc 24,36b-53

La prima questione che pone l’ascensione è che il Signore non si è lasciato trattenere a lungo. Se fosse capitato a me di essere stato tra i dodici, di poter rivedere qualcuno non più sotto il potere della morte, di poter stare di nuovo con il Signore che amavo, avrei voluto che quel momento durasse per sempre, avrei voluto trattenerlo il più possibile. Dai vangeli appare chiaro che ai discepoli invece basta quell’incontro, basta sapere che quell’uomo non è sotto la morte. Non si intrattengono a lungo e di nuovo lui se ne va.

Accade anche a me che vorrei possedere e afferrare ciò che reputo essere il mio bene. Eppure, se non lo lascio andare, se non lo lascio libero, accade spesso che lo soffoco e così lo perdo. Se invece permetto che se ne vada, mi rimane interiormente come bene indistruttibile. E’ così con i figli: più si trattengono, più non si permette il rischio della loro partenza, più li soffochiamo. E’ così anche con le persone che amiamo, già i Greci se ne erano accorti: quanto pretendiamo di conoscere tutto o di sapere tutto di qualcuno, senza custodire alcuna distanza, alcun “mistero”, accade che al tempo stesso perdiamo l’amore. L’amore è desiderio –dicevano– e il desiderio è una povertà, è una mancanza. Se possiedi tutto, se sai tutto, allora non desideri più nulla dell’altro e quindi smetti anche di amare. Al più amerai te stesso, in quanto cercherai di trasformare i pensieri dell’altro noi tuoi.
Noi oggi costruiamo relazioni dove siamo sempre “virtualmente presenti”. Pure lontani ci scambiamo il saluto del buongiorno o di buonanotte, messaggiamo tra noi per ogni questione… tutto questo ci fa credere che siamo sempre vicini agli altri, mai soli, mai desideranti, mai “senza” qualcuno. Questo è una delle grandi malattie del nostro tempo: fatichiamo a custodire delle distanze sane, ci aggrediamo (anche verbalmente) l’un l’altro molto facilmente. Non accettiamo facilmente di rischiare di perdere il “bene”.

Questo forse accade perché è davvero difficile fidarsi. Credere che ciò che non possiamo possedere, ciò che dobbiamo lasciare, non sia per questo perduto. In fondo i discepoli lo permettono perché hanno fatto questa esperienza: sanno che il Signore va via, ma lo rincontreranno, non è perduto per sempre. Solo lasciandolo andare lo ritroveranno. Forse, Gesù stesso ha permesso di “consegnare” la propria vita perché non aveva paura di perderla, ma sapeva gli sarebbe stata restituita dal Padre. Per questo la fede è superiore ad ogni possesso. Per questo chiede che molliamo la presa sugli altri e sul Signore stesso.

Un’ultima osservazione. Ogni volta che il Signore compare invita i discepoli a capire che “così doveva accadere”. Ogni volta che incontriamo il Signore ci si riappacifica con un pezzo della nostra storia, o delle prove che abbiamo affrontato, perché forse capiamo che “così doveva accadere”… Non è il “così” di un fato cieco o la rassegnazione di chi si sente sconfitto, ma di chi coglie il senso, la logica che lo porta non più a vedere la sofferenza e la morte ma la vittoria su di essa. Gli esempi possono essere molti e personali. A volte occorrono anni perché ciò che ci appariva soltanto una sconfitta possa mostrare qualche segno di resurrezione. Altre volte, dobbiamo proprio aspettare che ci sia qualcuno che riesca a spiegarci perché “bisogna che si compiano tutte le cose…”