Anno C – Venerdì 18 giungio 1010 – Messa decanale

Nm 33,50-54 Sal 104 Lc 6,20a.36-38

Riguardo al vangelo che abbiamo ascoltato vorrei dare una sensazione, una considerazione e una applicazione.

La sensazione è quella di un certo imbarazzo che provo ogni volta che devo provare a spiegare questa parola.
L’imbarazzo nasce dal fatto che ho l’impressione che il mio interlocutore consideri questa parola fin troppo chiara (chi non capisce “perdonate e sarete perdonati”? – ci sarebbe qualche cosa da spiegare?) e dunque sia poco disposto a mettere in discussione ciò che lui effettivamente pensa, attendendosi da me solamente qualche esempio morale o qualche esortazione a un impegno per una messa in pratica.
E tuttavia è anche fin troppo chiaro che nella mentalità della maggior parte dei cristiani questa parola è diventata molto retorica. Nello schema più condiviso è incapace di generare reali crisi (quelle del vangelo…) e per questo suona insipida. Così ha contribuito alla più insopportabile immagine del cristianesimo moderno: “quello di uomini dolci, dal sorriso d’angelo, che non si arrabbiano mai, che tutto sopportano infinitamente… e che in definitiva non hanno mai nulla da dire.”
Mi diceva una volta un ragazzo: “don non vengo più a messa, tanto per sentirmi sempre dire che dobbiamo sempre perdonarci e amarci…”
Segno forse che qualche spirito forte del cristianesimo si è perduto, come forse anche il senso di queste parole evangeliche.

Il senso di questo imbarazzo è tutto scritto sulla fronte delle generazioni più piccole. Il nostro bambino frequenta il catechismo e – gli viene spiegato – che dal principio dell’amore evangelico scaturisce il dovere di essere accogliente con tutti, di spendere la propria vita per gli altri, di non giudicare, di perdonare, di non reagire alle offese ricevute e via dicendo.
Finita la lezione, prima che egli affronti il cammino verso casa, noi lo soffochiamo di raccomandazioni e gli spieghiamo che “non deve dar retta a nessuno” perché ognuno è potenzialmente un aggressore. Che non deve fidarsi di coloro che gli offrono doni, che deve stare attento a non farsi prendere le cose, che deve farsi rispettare dai compagni e che non deve cercare di restare indietro agli altri per non far fare brutta figura anche ai genitori.
Con questa serie di istruzioni il nostro bambino viene avvertito che l’altro deve essere da subito giudicato perché è potenzialmente infido e violento e che spesso è necessario essere simulatori e aggressori – non per fare del male – ma per proteggere cose e persone che ci stanno a cuore.
E che la mitezza e l’arrendevolezza sono spesso un incoraggiamento al sopruso e alla cattiveria. Perché – nella società e nel mondo – il conflitto è in realtà uno dei modi, persino inevitabili, per dire il bene.

Ecco la considerazione: la rimozione dei simboli del conflitto dentro il quale la cura deve esercitarsi è una ingenuità pericolosa che nasce solo dal fraintendimento di questa parola evangelica. Questo vangelo non si iscrive tra le regole sociali e non è la norma di una società idealmente giusta. L’edificazione storica di una civilità dell’amore di Dio, secondo la parola di Dio, è impossibile e persino pericolosa. E oltretutto, nella attuale società che vive sulla ricerca del “sé”, “sull’autorealizzazione”, la retorica del “perdono” e della “misericordia” sarà sempre una parola detta nel momento che è “da ricevere” e non da “dare”. Perché per chi ha come modello ultimo la sua realizzazione, è solo in chiave di compensazione che poi pratica l’alta retorica dell’ “ascolto dell’altro”, del “rispetto dell’altro” ecc. “Date e vi sarà dato” viene irrimediabilmente distorno da chi è un tantino intelligente dicendo: “inizio a ricevere e poi vediamo”…

E invece, per quello che è realmente, questa parola deve illuminare quella cattiva coscienza – quella ristretta misura – con la quale l’uomo esercita sempre la sua gustizia. Incapace di onorare l’altro per quello che è realmente, mai innocente nella sua lotta contro l’ingiustizia (chi è senza peccato?). Come incapace di edificare società se non su una quota calcolata di prevaricazione.
“Non giudicare” è allora il divieto di frequentare l’Eden, impossessandosi del principio del bene e del male indipendentemente dalla storia realmente vissuta. Evitarci il dominio che ci illude di poterci sostituire a Dio nei confronti dell’altro uomo. Perché il nostro modo di intendere la giustiza e la cura non è mai assoluto (violento o non violento che sia).

Mi sia permesso allora di conlcudere con un esempio. In questi anni di Seminario – dove la vita di comunità è stretta – ho imparato che la cosa peggiore non è “farsi un giudizio sul fratello che ci stà accanto” (sarebbe ipocrita se no ce ne facessimo uno) quanto la “fissazzione perenne e puramente retorica” di questo giudizio. Non c’è cosa più triste costatare che le parole che abbiamo da dire su un nostro confratello o compagno sono le stesse che avevamo il primo giorno che l’abbiamo conosciuto. E magari quando ci si rivede dopo un anni ritornano ancora le stesse etichette, e battute, puramente di circostanza, date la prima volta.
Dico che contro questa assolutizzazione dei giudizio forse dobbiamo batterci con più vigore (e più violenza), anzitutto in noi stessi e anche in quella sana correzione fraterna. Il vangelo di oggi sarebbe onorato.