Anno C – Santissima Trinità

Gen 18,1-10a Sal 104 (105) 1Cor 12,2-6 Gv 14,21-26

Ci sono due parole in questa Eucaristia che vorrei considerare e mettere in relazione.
– La prima l’abbiamo ascoltata diverse volte nel Vangelo. E’ la parola dell’amore cristiano. Dice Gesù in questo Vangelo: “chi mi ama sarà amato dal Padre”, “se uno mi ama il Padre mio lo amerà”, “chi non mi ama non osserva le mie parole” ecc.
– La seconda parola è invece presa dalla Solennità di oggi ed è la parola “Trinità”.
Sono due parole che – se ci pensate – hanno avuto esiti e storie diametralmente opposte, malgrado la loro innegabile vicinanza.

Per la parola “amore” abbiamo la sensazione che si tratti di una cosa nota in sé e per sé. “Amare e essere amati” è l’esperienza alla quale ogni uomo è chiamato, e non vorremmo aggiungere altro. Esperienza che – pur introducendo infinite differenze (“amore gratuito” “carità cristiana”, “amore narcisistico”) – gode di un significato vasto e universalmente riconosciuto.
E tuttavia, forse proprio per questo motivo, parlare di amore oggi sembra usare una parola ormai vuota e incapace di dire qualcosa di nuovo che ci tocchi realmente.
Mi diceva un ragazzo: “don, non vengo più a messa perché tanto so che alla fine voi dite sempre la stessa cosa e cioè: che dobbiamo perdonare e volerci bene. E io per sentire questa parola dell’amore non ho bisogno di venire a Messa”. Questo è l’esito dell’abuso del nostro linguaggio sull’amore e noi tutti dovremmo morderci la lingua ogni volta che ci viene da usare questa parola per dire una sintesi del messaggio cristiano.

Al contrario la storia della parola “trinità”. Parola teologica difficile, per non dire incomprensibile nel suo referente diretto – con tutte le questioni dell’uno e del tre, e del loro rapporto – meglio non chiedere nemmeno.
Parola tecnica inutilizzata. Parola che in ultima analisi riguarderebbe una certa immagine cristiana di Dio – quindi neanche indispensabile per vivere. E – da aggiungere – immagine certamente fastidiosa per le persone aperte al dialogo interreligioso.
Resiste nei catechismi – perché proprio non la si può eliminare (ma tanto si sa, i bambini sopportano di tutto quando sono costretti) – e il suo contenuto viene spesso “aggiornato” dalle quelle povere catechiste che non sanno più come raccontarla (e come tener fermi i ragazzi sempre più irrequieti). Aggiornato con immagini che sembrano più comprensibili e appetibili: “la comunità perfetta”, “la famiglia più riuscita”, “la forma dell’amore vero” ecc. ecc.
Chi invece ha la fortuna di non fare il catechista può avere definitivamente rinunciato a farsi la domanda. Non sostenendo nulla o sostenendo magari che la trinità “non si deve capire” e basta. Oppure sostenendo che è una invenzione dei preti che – si sa – ci chiedono soldi e poi ci imbrogliano le carte.

Ma il problema è proprio quello che non “riusciamo a dire la Trinità”? Il problema è che non capiamo bene questa nuova immagine di un Dio “uno e trino”?
Sarà… ma Gesù non sembra interessato a questo. Il Vangelo non sembra interessato a spiegare una nuova immagine di questo Dio “uno e trino”. E dunque forse ci dovrebbe venire il sospetto che anche la Trinità non parli di questo.
Ciò di cui parla la Trinità, ciò di cui parla Gesù in questo Vangelo, non è una nuova “idea di Dio” che ci dobbiamo immaginare, ma un nuovo modo di “rimanere in relazione con lui”. Più che una nuova rappresentazione di Dio, la fede trinitaria è un nuovo contatto con il divino, che Dio stesso realizza con noi incontrandoci in Gesù Cristo.

Posso confidare senza vergogna che non sono mai stato folgorato da nuove immagini di Dio. La questione non è se nasce in me l’idea di un Dio più monolitico o più dinamico. Se mi convincono che è meglio il dio semplice dell’islam che è sempre uno oppure questo Dio che non si capisce bene è uno e tre.

La questione è invece che nel cristianesimo “Dio prende dimora presso di noi, se ci ricordiamo di Gesù e delle sue parole”, come abbiamo ascoltato nel Vagelo. E dovrebbe stupirci.
E ci ricodiamo delle parole di Gesù soltanto se è in noi lo Spirito.
Detto in altri termini: il Vangelo dice che io non so chi sia Gesù – e letteralmente non so neanche raccontare cosa ha fatto realmente, cosa storicamente posso essere certo che abbia detto e fatto – se non ho la fede della Chiesa, se non passo attraverso “lo Spirito” di Gesù, che me lo fa credere non come me lo immagino io o se lo immagina uno storico (un pio giudeo del tempo, un uomo molto saggio e buono, uno filosofo cinico), ma come è realmente. Ecco perché chi cerca Gesù nei libri di Augias non lo troverà mai e anche chi legge i libri del papa, ma senza lo Spirito di Gesù non capisce nulla. Al massimo proietterà su Gesù qualche valore borgese della solidarietà e dell’altruismo che gli è stato insegnato.

Ma quando ci ricordiamo di Gesù nello Spirito – dice il Vangelo di oggi – il Padre dimora in noi.
E questo significa che incontriamo Gesù come è realmente, soltanto nel luogo dove noi incontriamo noi stessi come siamo realmente, dove noi siamo realmente noi stessi oltre i nostri piccoli progetti (io sono quell’uomo che per 20 anni ha fatto l’impiegato e ha sognato una casetta… – no io sono di più di questo!) e dove scopriamo la radice del nostro desiderio. Non a caso Dante quando nell’ultimo Canto, nell’estasi, vede Dio, scopre anche il suo vero volto di uomo.

Dunque – bisogna ricordarcelo – ai preti bisogna dire grazie non quando ci costruiscono gli oratori nuovi, ma quando confidando nello Spirito (che esiste) azzardano a raccontarci di quel Gesù che è vissuto in Palestina e così facendo scopriamo cose di noi uomini che neanche pensavamo di poter desiderare.
Mi disse una volta una Signora dopo una cena: “sa don, dopo anni di matrimonio ora mi accorgo che nella mia vita non pensavo neanche di poter desiderare tanto mio marito, malgrado tutto quello che mi ha fatto passare.”

Se non rimango nella Parola Gesù non conoscerò mai cosa sono realmente capace di desiderare. Guardando a Gesù scopro che un uomo può desiderare la vita ben oltre tutte le malattie che deve sopportare. Può desiderarla ancora e non credeva di esserene capace. “Eppure per me, signora Carla, questa ragazzo resta un uomo anche se è da dieci anni in un letto senza parlare”.
Gesù non mi insegna dei valori, mi insegna a desiderare come desidera Dio.
La fede trinitaria è poter desiderare come desidera Dio. Poter amare come ama Dio.
Di più: la fede trinitaria è desiderare con il desiderio di Dio, amare con l’amore di Dio, conoscere come Dio stesso conosce.

Per capire questo serve un cammino lungo, a volte più lungo di quanto la nostra pazienza di camminare ci permette. È più a buon mercato continuare ad abusare della parola “amore” e dimenticarci della parola Trinità. Certamente più a buon mercato, ma di una soddisfazione infinitamente minore.