Anno C – III domenica di Quaresima

Dt 6,4a;18,9-22; Sal 105(106); Rm 3,21-26; Gv 8,31-59

Forse questo vangelo si può comprendere meglio sullo sfondo della disussione delle prime comunità cristiane tra i convertiti provenienti dal giudaismo e quelli dal paganesimo. Tra la discendenza di Abramo e invece noi. Dobbiamo immaginare che questa questione occupa molte energie della prima chiesa. Quale merito possiedono in più gli ebrei dai cristiani? Il cristianesimo è una nuova religione? Perché i figli di Abramo non hanno – dice Gesù – tutto quello che serve per essere liberati dal peccato? E parte della difficoltà di questa pagine deriva dal fatto che Gesù parla a persone religiose e che conoscono bene le cose della loro religione.
Tuttavia questa non è oggi una discussione di nostro interesse. La storia ha dato la sua risposta facendo nascere il cristianesimo e non semplicemente una tra le tante sette del giudaismo. Gesù non è soltanto un rabbino che interpreta la Torà. A buona pace di Augias e dei suoi discepli. Questo vangelo ne è la riprova: Gesù non ha di sé questa precezione.
Ma dietro a questo scontro che forse ci interessa poco, c’è una questione più grossa che forse riguarda anche noi e la nostra pecezione del cristianesimo, il modo con il quale proviamo a vivere la nostra fede.
Gesù dice: “se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”
Noi uomini tendiamo tutti, per naturale disposizione, a rendere istituzionali le forme della nostra convivenza, a renderle abitudinarie, ordinarie. Quelle principali della nostra vita (il lavoro, lo stato sociale) sono un modo naturale che abbiamo per rappresentarci. Noi diciamo: sono italiano, sono un meccanico, sono uno studente ecc. Non possiamo metterlo in discussione ogni volta, ma quella rappresentazione, quel ruolo ci identifica nella nostra quotidianità.
Ma cosa succede quando anche il rapporto con Dio entra in questa sorta di sche istituzionale e scontato, per cui diciamo “sono cristiano”. Oppure entra nell’abitudine di una consuetudine?
Cosa succederebbe a un marito se nel rapporto con sua moglie facesse conto solamente ormai sul fatto che tanto lui è suo marito?
Penso che questa tendenza (o pigrizia) si possa chiamare – senza accezioni morali – il vanto degli uomini. Perché noi ci vantiamo (ma senza una idea morale) di essere italiani, o mariti o cristiani…
Ma cosa accade quando – ed è inevitabile che accada – quando questo meccanismo si innesta, quando ci limitiamo a sapere di essere la moglie o il marito – senza cercarlo e volerlo ogni giorno? Accade che noi non solo ci dimentichiamo della moglie o del marito, ma è come se finissimo schiavi della nostra routin, della nostra consuetudine.
E se questo accade nella religione – per cui è nella nostra abitudine che siamo cristiani – è come se finissimo schiavi della religione. Schiavi della religione e non più più liberi. Come questi farisei che avevano creduto in Gesù, ma non nel modo con il quale Gesù li provoca a credere.
Gesù vuole che crediamo in lui non come si crede sotto padrone, o sotto la schiavitù della nostra consuetudine. Credere in Gesù non è come credere nel padrone giusto, avere indovinato quello esatto. Il vero Dio non è affatto un padrone. Non ha la forma del padrone. Non ha un dominio da esercitare. Non chiede sudditi Chiede di essere cercato nella nostra libertà di ogni giorno… “in spirito e verità” diceva alla Sammaritana. Per meno di così preferisce mettersi in disparte.
Senza ammetterlo – perché è duro ammettere che si stà meglio sotto un padrone che detta legge che liberi – questa libertà è quella che i farisei non vorrebbero. Come ricorda Dovstoijescki nel racconto del Grande Inquisitore: ognuno di noi preferirebbe vivere sotto un padrone o sotto la schiavitù della sua routin quotidina che nella fatica di cercare ogni giorno nella sua libertà il Signore. Ma questo stesso cammino – che per fortuna ci vine incontro ed è già davanti ai nostri occhi – è la verità per ogni uomo.