Anno C – II domenica dopo il martirio del precursore

Is 5,1-7 Sal 79 (80) Gal 2,15-20 Mt 21,28-32

Noi tutti siamo stati abituati a pensare alle relazioni d’amore a partire dai sentimenti e dalle emozioni. Pensiamo di avere trovato la strada giusta, la nostra realizzazione, se “ci sentiamo felici” – così si dice.
Mio padre, pure dopo tanti anni di seminario, quando mi incontra non dimentica mai di chiedermi: “ma ti senti felice? Stai bene?”.
Facciamo così su molto, e il sentimento e l’emozione che proviamo per le cose è diventato realmente la prova – la cartina di tornasole – se quello che facciamo è giusto o no, se siamo realmente innamorati, se cresciamo bene i nostri figli, se abbiamo degli amici…
In modo sottile, e poco apparente, insegniamo a fare così anche ai nostri figli: non ci viene da chiedergli anzitutto “cosa hai fatto? Cosa stai facendo ora?” ma il nostro affetto si misura con la domanda “come stai?”
Giusto, inevitabile. Eppure ho l’impressione che perdiamo un pezzo importante della nostra vita e quindi ne paghiamo il prezzo. Per fare un esempio, ci scontriamo con un muro impenetrabile dei nostri figli (o genitori) che – quando si tratta di fare qualcosa – rispondo coerentemente con quello che gli abbiamo insegnato sull’amore con “non ho voglia”, “non me la sento”, “non ora”…

Ma come vincere quel muro impenetrabile dove “lo stato d’animo del momento è tutto”, se fin da piccoli ci siamo preoccupati del lato sentimentale e affettivo dell’amore? Se ci siamo sempre preoccupati del loro “come stai”. La partita è persa.

La pagina di Isaia della prima lettura di oggi potrebbe aiutarci a insegnare un amore diverso. Perché questa “poesia d’amore” (notate – scritta da un amico dell’amato) è in grado di parlare dell’amore a partire dal fare: “la vangò, la liberò dai sassi, vi piantò, vi costruì”…

Parliamo ai nostri figli delle opere dell’amore, piuttosto che del sentimento.
Raccontiamogli “il fare” che è l’amore. E chiediamogli conto delle opere.
Amare non è sentirsi bene, ma un “fare” operoso.

Se i nostri figli non provano più nulla (e ci sembrano apatici) è perché senza il lavoro delle mani per qualcun altro, anche le emozioni e i sentimenti che ci sembravano travolgenti dopo un po’ finiscono… e perdono quella soddisfazione (che sarà sempre frustrata, ci dice Isaia) che ha soltanto che si mette al lavoro rimboccandosi le mani.

E notiamo l’ultima finezza di questa pagina: il Signore che opera così (a modo suo nella vigna) l’amante operoso di questa vigna che non fa frutti, non chiedeva nulla in cambio.
Come sa chi veramente è appassionato al suo lavoro – per fare veramente bene una cosa alla quale si è appassionati, non si chiede nulla in cambio, non avrebbe un prezzo. E dunque non chiede di ricevere per sé da noi uomini la stessa opera o lo stesso lavoro o amore che lui ci aveva messo. Come dire: ti ho amato, e ora non mi ami?
Ma lo chiedeva per altri, voleva che il suo lavoro fosse imparto da noi perché così tra noi si imparasse la giustizia.
Cosa c’è di più limpido?