Anno C – I domedica di Quaresima

Gl 2,12b-18; Sal 102; 1Cor 9,24-27; Mt 4,1-11

È bello essere qui a celebrare con voi questa eucaristia e ascoltare queste parole.
Ci sono molte circostanze favorevoli in questa messa. E’ bello per l’occasione di essere qui in mezzo a voi nei momenti più importanti dell’anno. Dopo la messa di Natale, siamo insieme oggi all’inizio della quaresima. E’ bello perché siete proprio qui, che è anche la mia “casa” dove quest’anno vivo e trascorro molto del mio lavoro. E’ bello per la giornata che ci vede lavorare e riflettere insieme, non separatamente nelle nostre branche o nel nostri uffici o università, ma qui insieme.
Tante circostanze favorevoli.
Vorrei partire da questa lettura di Gioele perché penso ha da dire molte cose per la nostra vita. L’oracolo del profeta inizia con un versetto che è stato saltato ma che da il senso vero del suo discorso. Senza questo versetto il testo suona come un discorso generico e disincarnato sulla conversione.
L’inizio è: “ma anche ora… ritornate a me con tutto il cuore, con digiuno, pianto e costernazine”.
“Ma anche ora”, perché un attimo prima Gioele aveva descritto la situazione di cateastrofe. Per fare un paragone direi una situazione del tutto simile a quella che abbiamo visto ad Haiti. Dice Gioele: “Nonostante tutto”, “ma anche ora” – noi potremmo dire – “ma anche lì”. Anche lì è possibile un ritorno alla vita, la trasformazione della storia perché nessuno possa dire: dov’è il loro Dio?
Questa è preghiera Cristiana per eccelenza: anche quella che ricorda a Dio stesso che anche noi aspettiamo risposta a questa domanda – che è una bestemmia – ma che dobbiamo resistere fino a che non vedremo tornare pezzi che mancano, i conti che non tornano, in ogni scigura della vita (a partire dalle nostre).
Ricordate l’episodio di Giovanni del cieco nato. I discepoli chiedono “chi ha colpa perché nascesse così?” e Gesù li rimprovera dicendo: rimboccatevi le maniche, metteteci un braccio, fate quello che siete capaci perché aiutando uno malato si veda la gloria di Dio (questa malattia è per la gloria di Dio). Datevi da fare per trasformare la malattia in guarigione. Fate raduni, pregate, ma non rassegnatevi all’idea che questa è l’ultima parola nella vita e nella storia. Né insegnate questa rassegnazione ai vostri figli.
Ecco il senso del discorso di Gioele. E dice: “ritornate a Dio con tutto il cuore”. Notate la finezza: la tradizione rabbinica insenga che l’uomo ha due cuori: uno a destra dedito al bene, l’altro a sinistra velenoso e oscuro, pronto alla critica. “Ritornate a Dio con tutto il cuore” significa amarlo anche con il cuore ribelle, non soltanto con quello già buono e religioso. Interessante.
Ancor più interessante per il fatto che i due cuori sono nella realtà tutt’altro che separati, in ogni circostanza. In ogni circostanza l’ambiguità delle nostre azioni ci perseguita e ci perseguiterà. Anche l’ambiguità del fare del bene. O l’ambiguità di non sapere se si agisce per il bene degli altri o per noi stessi, magari per il nostro narcisismo. Soltanto nelle fiabe appare subito evidente e separato il bene dal male. Molto più realistico è quando entrambi sono annidati nelle stesse azioni e negli stessi uomini. Quando l’opera buona delle nostre mani si trasforma, per esempio, in un atto di orgoglio. Quando l’amare una persona si trasforma nel soddisfazione narcisistica di essere amati. Quando fare un servizio diventa il senso del nostro possesso sul mondo. Ecco la tentazione: nessuno può dirlo – se non tu stesso – quale è la vera intenzione e la vera natura del tuo gesto, del tuo amare. Perché da fuori è sempre lo stesso gesto. Anche per Gesù: moltiplicare dei pani nel deserto (trasformare i sassi) o moltiplicarli per la folla. Il gesto è lo stesso, eppure uno è tentazione del satana e l’altro un segno della presenza di Dio. Ma da fuori lo stesso gesto. La tentazione è questa ambiguità che chiede di esssere sciolta, anche quando appare difficile.
Questa è la parola della tentazione. Solo se saremo messi nelle prove – anche nella tentazione di andarcene o di non credere – potremo scogliere l’ambiguità che contiene la nostra vita. Essere messi sulle spine e in tentazione da Dio è già un bel segno: è il segno che siamo considerati tali da valere qualche cosa, siamo considerati capaci di resistere. A differenza di tutte le mamme consolanti che crescono figli perennemente scemi perché incapaci di portare alcun peso. Dio ci considera capaci di portare anche un peso.
Per questo il Vangelo non contiene parole edificanti o consolanti, ma sempre parole che bruciano e che provocano. Se non le sentiamo così non stiamo ascoltanto il Vangelo.
Lo Spirito ci porta in questo tempo in un posto dove non si sta comodi (e una comunità non è un posto comodo – voi lo sapete bene). Non ci si deve sentire coccolati perché possiamo resistere alla tentazione di moltiplicare il pane non per gli affamati ma per vederci cresciuti e ingrassati o fare segni (cene, opere, fondi) non perché ci interessi realmenti di qualcuno ma per la nostra grandezza. Parole sempre brucianti. Gesù moltiplica i pani per suggerire che Dio è disposto a fare anche miracoli pur di sfamare gli altri ma Dio non fa neanche un ‘miracolino’ piccolo così per sfamare il figlio suo, per sfamare se stesso. E non muoverà un dito per schiodarsi dalla croce.