Anno B – Dedicazione del Duomo di Milano

Is 26,1-2,4,7-8; 54,12-14a Sal 67 1Cor 3,9-17 Gv 10,22-30

Gesù viene accerchiato e messo alle strette. La scena è quella di un uomo che passeggiava libero tra i portici e viene bloccato dai suoi interlocutori che vogliono arrivi al punto della questione e delle sue pretese. E’ come se Gesù avesse una pretesa troppo alta che i suoi interlocutori non comprendono mai fino in fondo e ora vogliono definire.

Come quando tra noi ci chiediamo: e allora, cosa vuoi da noi? Qual è il punto della tua pretesa? Cosa dovrei fare? Come vorremmo anche noi che il nostro cristianesimo arrivasse a un punto di certezza, a un gradino di stabilità acquisito per sempre. E non ci sembrasse invece di ritornare sempre da capo, di non raggiungere una meta. Come vorremo una linearità che sa esattamente cosa chiede e cosa promette. E ci sono momenti dove vorremmo che il Signore rispondesse definitivamente alle nostre domande e ai nostri problemi.

Ma la risposta di Gesù non è una risposta (e perché mai Gesù deve sempre dirti quello che vuoi sapere tu?) e ci dovrebbe fare irritare ancora di più. Gesù dice: questo punto, questa pretesa che io ho su di me, il nocciolo del cristianesimo, se la domandi così, ti sfugge e ti sfuggirà sempre! “Ve l’ho già detto e non credete”. Non c’è scampo per questo: c’è un modo di pensare al cristianesimo che – pur con tutti i corsi e gli approfondimenti e catechesi di questo mondo – non arriverà mai a quella sicurezza che il Signore Gesù stesso promette: le mie pecore nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Lo sono per sempre. Ecco: esiste una forma di cristianesimo che “accerchia il Signore”, fa dibattiti, approfondisce, indaga la bibbia, incontri interdisciplinari, ricerca di esperienze forti, eventi ecc., eppure manca sempre di nuovo la pretesa di Gesù. E’ come se non si fosse mai arrivati. E’ come se mancasse sempre qualche cosa e non si fosse mai in grado di dire semplicemente: qui io seguo il Signore, come una pecora.

Per dirla come Paolo nella seconda lettura: è come se mancasse il fondamento. E invece quando c’è il fondamento, anche senza corsi di formazione, senza esperienze travolgenti, (oro o paglia che sei – dice Paolo) anche senza catechismi e incontri, c’è tutto quello che ci deve essere, e la vita risplende. E tu sai che sei una pecora del Signore – e lo sai per sempre. Ecco il punto che fa la differenza.

A volte invece accade come nel mito di Sisifo, dove l’uomo è costretto a far rotolare fino alla cima di un monte una pietra pesante, la quale, appena sfiorata la cima, rotola nuovamente alla base. E allora ci sentiamo come costretti a fermare il Signore e vorremmo metterlo alle strette una volta per tutte. Come questi Giudei che della religione fanno esattamente l’esperienza che facciamo noi: senza sentire loro di poter dire semplicemente “seguo il Signore”.

C’è invece una “radice dell’uomo”, una profondità del suo desiderio, che l’uomo deve scoprire in sé stesso. E che fino a prima è sconosciuta all’uomo stesso. La profondità del mistero di amore in ogni vita, e della nostra vita, si può vedere a patto che questo dono uno lo scopra dentro, non lo mendichi da altri. Se non lo trovi in te, se non scopri da dentro la verità della parola del Vangelo, il contatto è sempre destinato ad essere perso e faticosamente cercato e ricercato di nuovo – per quanto si dicano preghiere o si celebrino eucaristie. E’ la profondità del nostro desiderio, è la scoperta di imparare a desiderare cose più grandi di quelle delle quali ci accontentiamo, per noi o per gli altri.

Senza questa scoperta, Gesù non risponde alle tue domande di senso, perché sa che dopo un attimo non ti basterebbero più e non vuole farti ricadere in una ricerca senza fine.

E invece la domanda dei Giudei, come le nostre, hanno davvero una fine. Nella vita di Gesù uno vede tutto quello che c’è da vedere e non c’è altro. Dio si è manifestato per sempre. Non serve altro. La fatica di Sisifo ha realmente una fine.

Nella vita di un uomo c’è realmente tutto quello che serve perché egli compia la scoperta del suo legame con Dio, del suo desiderio infinito, del legame tra il pastore e le pecore. Si può essere esclusi da una religione, da una società, da uno determinato standard di vita, da un modello morale, ma nessuno può essere escluso da questa scoperta. La scoperta della profondità di questo legame con Dio che ci fa essere definitivamente sue pecore, suoi figli. Purché lo scopriamo in noi stessi. E questa scoperta ci permette di ascoltare questa Parola del Vangelo, le parole di Gesù, a una profondità che ci raggiunge alla radice. In quella radice senza la quale questa parola non dice nulla di sensato, anche se domandiamo infinite volte al parroco il suo significato.