Anno A – Festa della Immacolata Concezione

Gn 3, 9a-b. 11c. 12-15. 20 Sal 86 (87) Ef 1, 3-6. 11-12 Lc 1, 26b-28

Per intuire il senso di questa festa serve che noi meditiamo un momento la fragilità del nostro desiderio di vita. Sembra banale che si desideri la vita invece che la morte ma non è così.

Mi diceva una donna afflitta da un lutto: “don, si ricordi che ora non si vive, si sopravvive”. Questo – pensavo – perché la vita è solo relazione, e quando manca la relazione allora si capisce che non si vive più come prima, che è difficile continuare a desiderare al vita. Per questo la bibbia usa una parola plurale per dire “la vita” HAYYIM.

Ma c’è qualcosa d’altro – più profondo – che ci rende ambiguo il nostro desiderio di vita. Si chiama il peccato di Adamo.

Provo a fare un esempio.
Ho l’impressione che facciamo fatica a considerare il fatto che le nostre azioni hanno conseguenze definitive. Mal sopportiamo il fatto che il nostro tempo sia definitivo e irreversibile, in certo modo incancellabile.
Per questo quando qualcosa va male ci consoliamo con alcune frasi: a tutto c’è rimedio… cosa ci possiamo fare…
Perché il peso della scelta nella nostra vita è difficile da sopportare per noi uomini.

A qualsiasi età. Un ragazzo pensa più al suo domani che all’oggi che vive… altrimenti muore. Vive felice perché sa che sarà (non che “è”, ma che “sarà”). Sarà… sarà un calciatore, un… ed è felice perché nulla di quello che “sarà” nel futuro è già accaduto, quindi non è ancora ineluttabile, si può sempre modificare.
ES: Ascolto spesso la gente usare il futuro anteriore, “quando avrò fatto…”??: significa non vivere né il presente né il futuro!

Ma quando la scuola diventa una, il lavoro diventa uno, l’amico diventa uno, la ragazza diventa una, e la nostra storia si scrive in una singolarità di vita unica ecco che il nostro desiderio di vivere sembra compromesso e incrinato (la chiamano la crisi della adolescenza: iniziare ad accettare che si è soltanto “questo”).
E magari sorge in noi la domanda: e se io fossi stato diverso, se le cose fossero andate diversamente, se io fossi stato invece che questo altro, se fossi nato invece che qui altrove… E potrebbe nascere in noi il sospetto di essere stata ingannati: che altrove sarebbe stato meglio. Non è forse lo stesso sospetto che ci nasce non appena appaghiamo un nostro desiderio? Dal più semplice, quando…

E’ difficile – io dico impossibile – che nella singolarità della nostra vocazione, del nostro lavoro, della nostra famiglia (anche di peccato o di scelte sbagliate) non nasca il sospetto di essere stata ingannati, ma che ci sia invece tutta la fiducia che noi abbiamo tutto il desiderio di Dio. È difficile che non nasca il sospetto verso questo nostro altro che ci sta accanto che qualcosa di noi ci sottragga e che saremmo stati meglio senza (la mia nonna diceva: fidarsi è bene e non fidarsi è meglio).

Allora questo è stato grandioso in Maria: che una donna abbia potuto credere senza la possibilità di ritrattare e qualunque cosa succedesse, che dalla sua singolare vicenda passava tutto l’eterno di Dio, tutto il desiderio di Dio. Che senza il più piccolo sospetto lei potesse accogliere che la sua singolarità fosse così bella da contenere il mistero di Dio. E dico accoglierlo: accoglierlo non significa possederlo (che è l’altro modo per desiderare la morte). Accoglierlo significa sia immaginare che passi da noi, sia sapere che è altrove: non che noi siamo Dio, ma che lui non può fare a meno di noi e di questo nostro oggi.

Non è quello che noi non siamo capaci di fare? Di credere che nella nostra singolare vita si giochi tutto (pur non essendo noi Dio) e che non siamo stati ingannati, ma che ogni istante è la decisiva promessa della sua vicinanza e non del suo inganno.
E non facciamo forse di tutto per sfuggire proprio a questo? Per non credere, per non voler credere, che la nostra singolare vita di oggi è già “piena di grazia” agli occhi di Dio.