3 film a confronto sulla Passione di Gesù

Ognuno di noi quando ascolta il Vangelo traduce le parole in immagini. Un concilio del 787 (di Nicea) diceva che questa nostra immaginazione è impossibile da non avere: “Se qualcuno non ammette che i racconti evangelici siano tradotti in immagini, sia anatema”. Per secoli l’arte pittorica ha tradotto in opere questo immaginario e questa esigenza stessa della fede. Più di recente anche il cinema ha offerto numerosi volti di Cristo.

Il filosofo di Lubiana Slavoj Žižek, interpretando una intuizione dello psicologo francese Lacan, afferma che il nostro “immaginario” è composto di tre parti: il reale (l’inconscio insondabile che mi provoca), l’immaginario (l’onirico, ciò che genera sogni) e il simbolico (la cultura). Il reale è impossibile da raggiungere (nessuno raggiunge l’immagine reale di Cristo) perché è sempre visto “da un qualcuno” e con i suoi occhi letto e interpretato. L’immaginario è invece ciò che ci affascina senza chiederci uno sforzo, ma è “immediatamente” a contatto con i registri della nostra sensibilità e ci conferma nelle posizioni in cui siamo. Il simbolico è invece la fatica di un dialogo che mi mette nel confronto con la realtà.

Questa serata vuole aprire il nostro immediato immaginario su Gesù e sugli eventi della passioni per confrontarlo con un “culturale”, con una pluralità di voci cinematografiche che hanno generato immagini diverse (anche se non tutte all’altezza dei Vangeli, come anche è accaduto nella pittura). Ognuna di esse – andrà valutato – potrà essere messa più nell’immaginario o più nel culturale. Per esempio, il successo di Down Brown non sta forse nel fatto che ci conferma in un immaginario trasgressivo e misterico già vicino alla nostra cultura o “sotto-cultura”? Il lavoro di uno storico non è invece più vicino alla cultura che si produce per scalzare immaginari bigotti dei quali è fatta la nostra immaginazione?

La pluralità di immagini è invece il primo dato da raccogliere dai Vangeli. Questa pluralità permette la creazione di un simbolico o di una cultura, continuamente riscritto a partire dalla realtà (per esempio i dati della storia, della ricerca o il vissuto personale) e dal genio dei singoli uomini.
A questa pluralità delle riletture cinematografiche vogliamo rifarci questa sera.

Scegliamo tre opere: The Passion di Gibson, Jesus Christ Superstar di Tim Rice e Il Vangelo secondo Matteo di P. Pasolini.

“The Passion” di M. Gibson

Nasce nel contesto di una visione protestante della morte di Gesù ed è legato anche alle vicende personale del regista. La visione marcatamente protestante riguarda il fatto che Gesù abbia “preso” su di sé fisicamente tutto il male del mondo, che Gesù abbia subito in quel momento non solo il male della colpa dei suoi aguzzini ma del mondo intero. Come se Dio (ma dovremmo dire il male) si scagliasse su Gesù per espiare su di lui le colpe (una soddisfazione del male) invece che scagliarsi sugli uomini. Gesù prende tutto il male del mondo su di sé (anche fisicamente).
Cosa c’è di buono e di vero in questa visione? Non tanto la quantità di dolore (l’aspetto “fisico” del film) ma il fatto che siano risparmiati altri da quel dolore. Quel dolore è così tanto non perché è la quantità importante ma perché è tutto quello che risparmia al mondo, a partire dai dodici che Gesù lascia scappare.
Per dirlo con un esempio: è come quel prete che durante una retata dei nazisti vede al muro per la fucilazione un suo parrocchiano che ha figli e dice ai tedeschi: prendente me al posto di lui. E’ come se Gesù dicesse a Dio: se gli uomini hanno colpa o avranno colpe, tu preditela con me, ma non chiedere più niente a loro. Appunto: “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Dopo quel gesto noi non possiamo aspettarci da Dio che voglia neanche una gocciolina di sangue neanche se abbiamo fatto cose pazzesche perché quel sangue è stato sparso lì e basta.
E infatti, proprio mentre Gesù viene messo in croce si ricorda la frase dell’ultima cena: “non c’è amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici”.

Per questo motivo Gibson si inserisce nel film nella mano dell’uomo che infligge il primo chiodo nella mando di Cristo. Perché il regista dice: in quella morte Dio paga il prezzo che il male vorrebbe anche per il mio peccato e dunque non devo aspettarmi più condanne da parte di Dio perché la condanna l’ha presa lui. In questo senso è un film sul perdono. Anche se vuoi direte: ma perché devo aspettarmi condanne da parte di Dio se faccio del male? Perché questo è scritto dentro il sospetto che noi abbiamo su Dio (o chiamatela Natura o Forduna o Destino), ovvero che le cose ci vadano bene o male a seconda di come Dio ce le manda e che Dio ci faccia fortunati o sfortunati a seconda del suo volere e del nostro peccato o senso di colpa. Questa cosa è radicata in tutti gli uomini e se uno crede nella croce non crede più nella Fortuna o Sfortuna che Dio ti manda, non crede più in una soddisfazione che Dio vorrebbe facendoci penare per purificarci un po’.

La visione di Gibson è “storica” e “violenta”: vuole darci un immaginario di “come è accaduto” e per questo sceglie l’aramaico e il latino o cura molti particolari. Ma la ricostruzione è molto falsamente storica (il luogo del calvario è davvero inverosimile come anche molti dettagli) e molto “romantica”. Nella sceneggiatura si è ispirato più che ai Vangeli – che riportano pochi dettagli – a un romanzo di Clemns Brentano (autore romantico) sulle visioni della passione di Cristo della mistica e beata Anna Katharina Emmerick (1774-1824).

Due cose possono interessarci, al di là del sangue:
1) I flash back presenti che rileggono i gesti del morire alla luce dell’ultima cena. E’ il punto di vista di Maria e Giovanni che mentre guardano ricordano le parole o i gesti di Gesù. Mentre la madre vede il figlio spogliato ricorda quando Gesù scoprì dai panni il pane dell’ultima cena. Quando è conficcato il chiodo ricorda “io vado a prepararvi un posto…” oppure “non c’è amore più grande di questo…”.

2) Dopo lo spirare di Gesù, la telecamera acquista il punto di vista di Dio e tutto il Golgota è visto dall’alto, come se fossimo noi Dio, attraverso una goccia di pioggia che è in realtà una lacrima. Come dire: anche Dio ha pianto per la morte del Figlio, perché in fondo questo sangue era necessario per gli uomini, per vincere definitivamente il loro sospetto genesiaco “su Dio”, ma non per Dio stesso — questa è la parte cattolica del film, non il sangue ma il compatire di Dio.

Jesus Christ Superstar di Tim Rice

Una visione completamente opposta a quella di Gibson (la scegliamo appunto per il contrasto) è quella del musical di Tim Rice, trasportato in film da Norman Jewison (usa 1973). Non è solo il genere molto distante: da una parte un film con una forte pretesa storica (recitato addirittura in aramaico), dall’altra delle canzoni rock e dei balletti che ripercorrono l’ultima settimana della vita di Gesù. E’ davvero una visione differente della figura e del morire di Gesù.
Il titolo “Superstar” dice, in tutta la sua ambiguità, il punto della questione per questo film. Gesù sarebbe andato bene se non avesse avuto la pretesa che ha espresso: “Figlio di Dio”. Questa pretesa è ritradotta volutamente in modo ambiguo con “superstar”. Come dire: hai fatto un passio eccessivo. Giuda è, in questo film, il grande antagonista. L’inizio mostra l’arrivo di un Bus nel deserto con gli attori che scendono e si preparano a recitare. Da subito Giuda prende le distanze e accusa la pretesa eccessiva del maestro e che le cose sono cominciate ad andare male quando si è insinuato il tarlo di essere Dio. Al centro il tema musicale sulle parole “Jesus Christ, who are you? What have you sacrificed?”.

A differenza di Gibson, la scena Gesù porta la croce intervallato non dai ricordi dell’ultima cena, ma da un immaginario dialogo, che segue subito la condanna di Pilato, tra l’anima di Gesù (muta e introdotta da una musica trionfale) e l’anima di Giuda che cala dall’altro su melodie rockeggianti. A parlare, in questo dialogo, è solo Giuda che pone due domande tipicamente moderne. Ma al centro del suo discorso, oltre al ritornello “chi sei? cosa è (o perché) il tuo sacrificio?” anche le parole “voglio sapere” e “non fraintendermi”. Parole centrali per capire la visione di Rice, perché -per Giuda- è proprio su un fraintendimento che muore Gesù, su una incapacità di comunicazione. Come dire: se sei Dio potevi spiegarti meglio e non lasciare fraintendimenti, e potevi anche farci capire.

Due le domande che pone direttamente: 1) perché sei nato allora, in un tempo strano e lontano, quando la comunicazione non era di massa. Significa anche: se fossi nato oggi avresti fatto meglio, ma è anche il nostro desiderio (o falso desiderio) di essere contemporanei a quegli eventi. 2) perché la tua “religione” dovrebbe essere meglio delle altre, di Budda o Maometto? In pratica: cosa ne pensi degli altri, su cosa fondi la tua pretesa diversa di unicità?

Due domande fondamentali quanto diaboliche alle quali Gesù non risponde se non con le parole della croce.
La scena della crocifissione è musicalmente molto diversa. Una melodia jezzistica ritma quasi il battito cardiaco di Gesù che stupisce i suoi aguzzini con quella frase di perdono che dice dalla Croce.
Poi accade quello che in un musical non deve mai accadere, ovvero, il momento della morte coincide con uno stacco di silenzio che assomiglia quasi a un errore tecnico. Da qui un tramonto e una dolce melodia di fine. Gli attori ritornano sul bus iniziale per lasciare il set. Tutto è davvero compiuto e Giuda è l’ultimo a salire, quasi stupito e triste di ritornare alle solite cose (in una felici coincidenza tra il ruolo degli attori che vanno via per tornare ad altri spettacoli e il ruolo degli apostoli che delusi tornano alle barche).

Nel finale, una croce vuota e un pastorello in penombra con le sue pecore, sono l’allusione più bella a un mistero (la risurrezione) che cinematograficamente sarebbe privo di immagini.

Il Vangelo secondo Matteo di P. Pasolini

E’ il film in assoluto meglio riuscito sulla figura di Gesù. Non ha una pretesa storica, di riportarci nell’ambientazione reale, né romantica, né filosofica. E’ giocato tutto sugli sguardi, sui primi piani, sulle ambientazioni e sulle musiche.
Scrive Pasolini: “Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile”.
Al centro non c’è il Gesù sofferente o storico o delle mie domande, ma il Cristo che è risposta al perché del mio vivere e morire.

Gli attori di questo film sono (a parte pochi) persone di strada trovate dal regista quasi per caso: un fabbro, un parrucchiere, un amico. Nella scena della morte – come per la mano di Mel Gibson – recita la madre stessa di Pierpaolo, nella parte di Maria. Giuda ha un volto molto simile a quello del regista.

Scrive: “… una specie di ricostruzioni per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell’analogia che sostituisce la ricostruzione”.

E sulla scelta di non cambiare una virgola dal Vangelo: “La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo”.

La scena della condanna mostra un sinedrio fatto di uomini dal volto cattivo. Non sono i costumi (quasi ridicoli nella loro semplicità, come anche le ambientazioni di una piazza romanica) ma le facce e i modi del parlare di questi sacerdoti il centro. Ed è la nostra prospettiva che segue gli sguardi tristi e un po’ stupiti di Giovanni (incredulo e sofferente) e Pietro (più stralunato) a fare la differenza. Gesù non viene quasi neanche flagellato. Il soffrire non importa nulla, perché la questione decisiva qui è la morte, non la quantità di schiaffi!

La scena della morte di Gesù è anticipata dalla morte di Giuda che corre in un dirupo. Come una prima morte che preannuncia la seconda. Il rilievo di questa scena fa pensare a una relazione diretta con il morire del Signore. Come a voler suscitare la domanda (ma è una mia interpretazione): non è questa l’ultima estrema incomprensione del Signore? Più che l’averlo messo a morte, il sentirci così separati e abbandonati da Dio da volere morire noi stessi.

Alla condanna di Gesù la musica diventa un inno africano degli schiavi dell’Africa. Giuda pentito rende i denari e corre a impiccarsi. Corre… non va semplicemente. Nessun sonoro accompagna la scena se non il rumore del ruscello (è la realtà nella sua crudezza). La scena prosegue con il pianto di Maria (la mamma di Pasolini) e di Giovanni. Il processo è risolto in poche battute di Pilato, che parla con accento pacato e politico. Ma è visto da lontano perché il centro sono gli occhi di pianto dell’amico Giovanni.

Il rumore della folla rende la scena della croce molto realistica, come la povertà e la marginalità della scalinata che esce dalla città. Ma al tumulto Pasolini interrompe bruscamente una musica: è la musica funebre massonica di Mozart in Do minore K477. C’è un senso di antica grandezza in questa musica. Non c’è nessuna titanica lotta contro il destino ineluttabile. La morte non spaventa Mozart: la chiama perfino “cara amica” e nella musica stessa si percepisce il dolore per la separazione, senza tuttavia lasciarsene sopraffare.
Così anche qui tutto il dolore è anticipato nell’urlo non di Gesù ma del ladrone che viene inchiodato prima di lui. Il corteo che accompagna Cristo è tutt’altro che un esercito romano inferocito, ma sono gli uomini che lo hanno sempre accompagnato per la Galilea, e la folla come l’ambientazione sembra la stessa di quella quando del discorso alla montagna.

E il momento della morte di Cristo è interpretato –prima dell’urlo– con un buio di camera (come il silenzio nel musical di Rice) dove il regista inserisce (sul nero) le parole di Giovanni: “voi udrete con le orecchie ma non intenderete e vedrete con gli occhi ma non comprenderete, poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie e hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e non sentire con le orecchie”.
Le altre parole di Gesù sulla Croce non ci sono. Cristo è uno davanti al quale ci si copre la faccia per non vedere o per non voler vedere. Ma anche questa la lettura di Pasolini che parte da una crisi della sua vita, una crisi che chiama “irrazionale”: una incapacità di comprendere e quindi un vedere senza comprendere. Il Vangelo è stato la sua vita come ammette dopo la produzione del film: “[Il Vangelo] è quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l’ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m’accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo.”