Ultima domenica dopo l’Epifania

Is 54,5-10; Sal 129; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14

C’è una tragica illusione che racconta questo Vangelo. Dobbiamo intenderla così, come possibilità reale, come deriva drammatica ma esistente, come una menzogna che purtroppo non appare tale. C’è una relazione con Dio che può essere un’illusione, la proiezione della nostra mente, l’auto-consolazione di sé. Dunque una perdita di tempo, una vanità inutile. Essa può essere un modo per parlare con noi stessi, con la nostra mente e i nostri pensieri e non con un Altro che è Dio. In questa possibilità Dio diviene uno specchio di noi, un amico immaginario e irreale. “Non vi ho mai conosciuti” dirà Gesù in alcune parabole rivolgendosi a coloro che si sono fatti una falsa immagine di Dio. Per questo il fariseo non viene ascoltato: perché non ha mai pregato Dio, ha solo parlato con sé stesso.
Questa “illusione” non riguarda solo quelli che tengono Dio lontano volontariamente, ma può coinvolgere anche i credenti, i preti o i cattolici di ogni domenica. Essa non riguarda solo la relazione con Dio, ma contamina anche la relazione con gli alti. Dice questo fariseo: “grazie che non mi hai fatto come gli altri peccatori”. Una relazione distante e arrogante con Dio tiene anche a debita distanza tutti gli altri.

Cosa accomuna la falsa relazione con Dio che diviene una auto-cosolazione con la diffidenza nutrita verso gli altri uomini? Direi così: alla base c’è sempre un modo di voler dire “io”, di voler affermare sé. Più noi abbiamo bisogno di dire “io”, di affermare la nostra identità, più in realtà la nostra persona è fragile e la nostra ricerca di affermazione è vana. Ci sono infiniti modi di dire “io”, di affermare in modo forte questo bisogno a discapito degli altri. C’è chi dice “io” perché ha una macchina di grande valore, c’è chi dice “io” mostrando i suoi titoli di studio, c’è chi dice io mostrando la propria “ragazza” carina, il proprio orologio… c’è chi dice “io” litigando perché sul pianerottolo di casa i vicini (che magari hanno quattro figli) lasciano posteggiata la loro carrozzina, e “non è che non si passi”… ma ho bisogno di dire “io” e anche “mio” (riguardo allo spazio). Quanti esempi potremmo fare su questo bisogno di dire “io”? Non perché siamo “cattivi”, ma perché spontaneamente ragioniamo come il fariseo del vangelo e ci sembrerebbe di morire, di rimanere insignificanti, di restare delle mosche senza poter affermare fortemente in qualche modo noi stessi. Il fariseo del vangelo lo fa come lo facciamo noi, lui dice quello che pensiamo anche noi: “io non sono come questi altri…”.
E se il nostro “io” dipendesse invece solo da un libero riconoscimento degli altri, da una grazia che ci viene data, da uno sguardo che non possiamo che aspettare con trepidazione da qualcuno… che paura che avremmo!

Perché la relazione del fariseo con Dio e con gli altri sarebbe una strada percorribile e anche affascinante? Cosa c’è di affascinante nel fariseo che riguarda anche noi? Io dico: la sua serenità, la sua tranquillità, il modo semplice con il quale ha diviso il mondo e ha fatto spazio per sé, senza dipendere dagli altri. E’ una serenità che deve tenere per forza a distanza l’altro. Perché l’altro quando si avvicina mi incasina, mi compromette, mi chiede, mi fa vacillare… Mi chiedo se a volte questa “serenità” morale, questa tranquillità delle cose “chiare e distinte”, che tengono a distanza l’altro o Altro, non sia quello che cerchiamo anche noi, non sia proprio alla base di una certa pratica religiosa che è diventata routine. Una pratica che esegui solo per sentirti “a posto”, “tranquillo con Dio” (come se fosse possibile prendere sul serio Dio e rimanere tranquilli?). Non si dice forse così del precetto della Messa? Ho assolto il “precetto”, “mi sento a posto”…?
Potremmo chiederci allora: cosa ci sarebbe di male nel cercare questa sicurezza? Nel volere, in questo mondo turbolento, una relazione “chiara” e “regolata” almeno con Dio. Il male lo mette in luce Gesù: semplicemente hai perso la relazione stessa, l’hai vissuta a partire da un sospetto. Il sospetto che lui ti punisca, che ti prepari qualche tragedia… dunque meglio incasellarlo in una relazione sicura. Ma se perdi l’inquietudine, l’ansia, l’attesa, la domanda, allora perdi anche la relazione con Dio come con gli altri.
Pensiamo: gli altri non li “sentiamo” forse solo attraverso qualche angoscia, qualche patimento? Eppure così impariamo a essere vicini a loro. Chi tra noi ama un figlio e non ha provato l’ansia di perderlo. Eppure essa è anche ciò che ci indica che l’altro è davvero altro da noi, non è una nostra proiezione o un nostro burattino.

La preghiera cristiana raccoglie le nostre mancanze più con inquietudine, con affidamento patito, con una confidenza sentita, che con rasserenanti certezze o formule da assolvere per ottenere in cambio qualcosa. E’ vero: essa chiede tante volte anche la serenità e la pace (prima per gli altri e poi per sé), ma la chiede con il cuore pulsante del pubblicano e non con l’arroganza di chi sa che ha fatto tutto quello che doveva fare. Essa vive dei patimenti per gli altri e per sé, per le proprie mancanze delle quali tante volte non abbiamo che da domandare perdono. Essa porta il peso della vita nella forza del suo riscatto, nella domanda di una redenzione. L’altra preghiera non è preghiera cristiana, ma puro flatus vocis, lettera morta, tempo perso… perché, per quanto rassicurante possa essere, essa non vive come in una relazione vera.