Ultima domenica dopo l’Epifania

Os 1,9a;2,7a.b-10; Sal 102; Rm 8,1-4; Lc 15,11-32

Posso commentare queste letture solamente suggerendo sotto voce qualche spunto, come un uomo che cammina in punta di piedi. Avere una pretesa ulteriore significherebbe certamente rovinare la ricchezza di una delle più belle parabole di Gesù o della pagina di Osea.

Per me il fascino viene da qui: la parabola di Gesù è davvero troppo umana, troppo vicina al nostro dramma quotidiano. Ci sembra impossibile riguardi anche il dramma di Dio. Cosa voglio dire? Che quello che sta alla base di tutto è il rischio assoluto della nostra libertà. Non c’è nessun uomo che sia predestinato! Si può prendere la nostra parte di eredità e andarcene via? Si può! Si può smettere d credere nel Padre Eterno? Si può! Di più: si può decidere di farsi del male, di “avvitare” la propria libertà convincendoci che “uscire dalla realtà” sia l’unica strada… Si può decidere di non vivere, di sopravvivere… Ecco: non è detto che diventando grandi si diventa anche adulti, né che si diventi migliori. Non è detto che da una famiglia sana escano ragazzi sani… ecc.
Faccio un esempio. Di recente, sta spopolando su Facebook un gioco tra i ragazzi: si chiama neknomination… Certo, è un gioco! Ma ci si fa male anche per gioco. In Inghilterra ha già fatto 5 morti. Questo non ci dice nulla? Ma se fossero i figli nostri? E poi, se è davvero solo un gioco, dico ai ragazzi, perché vi vergognate a farlo vedere agli adulti? Non ti vergogni a farti vedere giocare a pallone, vero? Ma forse è più di un gioco…

Si può decidere di fare i propri bagagli e andarsene lontani (dalla verità di sé!), a qualsiasi età. A volte accade per giorni, mesi, anni… a volte per una vita intera. Non c’è bisogno di essere grandi peccatori: ognuno di noi sa quanto e quando lo ha fatto. Magari esteriormente rimanendo come sempre, ma dentro avendo come un grande peso, restando soli.
Bisogna attendere solo che “si ritorni in sé stessi”. Già! perché di questo si tratta: non tanto di un perbenismo, ma di essere uomini autentici. In fondo, quello che ti è chiesto è solamente di “vivere” (il comandamento del Dt) e di farlo autenticamente alla tua vocazione, alla tua destinazione di uomo.

Tutto questo potrebbe essere solo una descrizione banale e ovvia, oppure un moralismo, se non ci fosse l’altra parte della parabola che è l’attesa del padre.
E’ la stessa attesa che emerge della pagina di Osea. Questo è davvero il centro di tutto: la sua totale impotenza, così umana, insieme alla sua totale passione. Per citare il romanzo di Moby Dick: questa sofferenza è davvero la cosa più alta e più preziosa che esista. Tutto il resto è nulla a confronto. “L’oceano non contiene cosa più preziosa di quella lacrima” scrive Melvile. Rembrand che in un famosissimo quadro ha ritratto la scena ha dipinto il volto del padre con gli occhi bianchi di un cieco, senza pupille: tanto è stato il piangere per lui!

A partire da qui l’uomo si dimentica di sé e vive per gli altri che ama… tanto da dimenticarsi anche dei fratelli rimasti a casa. Ma non importa! Gli abitudinari si lamentino pure, tanto non hanno capito la passione di Dio. Sono quelli che si lamentano che il Dio della Bibbia è violento, è ingiusto… Non hanno capito la passione di Dio. Ma accadrà anche a loro un giorno –forse– di voler bene così (a un figlio, a un fratello, a un uomo o a una donna), rimanendo impotenti perché si è accettato di lasciar essere l’altro nella sua libertà. Allora si capirà qualcosa della passione di Dio.