Is 5,1-7; Sal 79; Gal 2,15-20; Mt 21,28-32

Ultima S. Messa a Saronno, Regina Pacis

Tante volte, finita una vacanza o al termine di una giornata, ho chiesto ai ragazzi: “cosa abbiamo vissuto davvero?”
Saper vedere la realtà è infatti una questione decisiva. Tutti sappiamo cosa sia giusto o sbagliato (come il secondo figlio della parabola), ma saper vedere quella persona concreta, saperla guardare negli occhi… saper vedere l’esperienza vissuta, saper vedere cosa è stata una giornata o tre anni…. questa è tutta un’altra questione.

Cosa insegna questo Vangelo sul saper guardare la realtà? Anzitutto, guardare la realtà cristianamente non è mai addolcirla. Il primo figlio della parabola dice: “non ne ho voglia!” (anche io in questo momento direi “non ho voglia di andarmene”).

Invece, per il Vangelo saper vedere significa tenere viva l’inquietudine. Perché ogni volta che noi non distogliamo lo sguardo dalla vita così com’è, l’inquietudine è inevitabile. Se vuoi bene l’inquietudine è inevitabile! Quando ci si innamora mica si è inquieti e col cuore ansioso?…
Cosa rivela questa inquietudine che è come una finestra aperta sulla realtà? Permette di accorgerci di non avere noi la regia in tante esperienze, di non esserne noi padroni. Pensate a un genitore con un figlio quindicenne che smette di studiare. Cosa può fare questo genitore? Pensate a un prete con un ragazzo che l’ha sempre seguito ma che a un certo punto (non si sa perché) smette di credere nella sua relazione con Dio. Cosa può fare? (si taglierebbe un braccio… ma a cosa servirebbe?).
L’inquietudine ci fa scoprire che non siamo proprietari di nulla tra tutte le cose che hanno davvero valore. Ci fa scoprire che dipendiamo da altri, o da un Altro e che non si può schiacciare il bottone “esc” come nei videogiochi. L’inquietudine è anche scoprire di dipendere dal perdono e dalla misericordia degli altri … che ansia! che inquietudine!… Eppure!
Vorrei dire ai ragazzi: c’è sempre un momento un cui gli altri o noi stessi non ci bastano più o ci deludono, allora si ravviva l’inquietudine e ci sono solo due possibilità: o questa si trasforma in angoscia o diventa affidamento attraverso il seme della fede che negli anni qualcun altro ha gettato dentro di noi.

Saper vedere significa non scappare da questa inquietudine della vita. Essa è lo strumento che fa cambiare il primo figlio della parabola: lui dice di no, ma poi si pente. Perché si pente? Perché la realtà lo appassiona ancora, perché ha mantenuto la sua inquietudine. L’inquietudine rende vera la preghiera.
Anche di Gesù è detto questo: “imparò l’obbedienza (ovvero il suo legame con Dio) dalla cose che patì”. Io tradurrei: “dalle cosa per le quale seppe mantenere viva la sua inquietudine”.

La pagina di Isaia è piena di inquietudine: come fate, o israeliti, a non vedere l’opera della paternità di Dio? Tutto questo vale anche per noi: come facciamo a non vedere e a non rendere grazie per l’esperienza che abbiamo vissuto? Essa è stata davvero l’esperienza di una paternità di Dio che non mi ha abbandonato e (spero possiamo dire) non ci ha abbandonato. Quanti infiniti gesti di cura abbiamo ricevuto? O questi sono già morti dentro di noi oppure, se li sappiamo vedere con passione e inquietudine, sono davvero il segno di una promessa, della cura di Dio e della Chiesa verso di noi.

Non solo non si è padroni nella vita, ma neanche si hanno diritti nelle nostre relazioni e nemmeno verso le persone che abbiamo più care o alle quali abbiamo dato di più. Dice Paolo: “non abbiate tra voi nessun debito (nessun diritto) se non quello di un amore vicendevole (ovvero proprio di una gratuità vicendevole). Se siamo in questa logica ogni sorriso cambiato è un bene enorme. In questa logica nulla diventa banale. Viceversa, fuori da questa logica, gli altri non asseconderanno mai del tutto i nostri desideri, non basteranno mai le loro attenzioni e ci sentiremo sempre un po’ frustrati. Al contrario, insegna un canto a me caro: “tutto ci fu dato per amore”.

Si è dipendenti anche dal perdono e dalla misericordia degli altri. Io chiedo scusa se –a causa dei miei limiti- qualcuno non ha potuto vivere questa esperienza della paternità di Dio, qualcuno si è sentito escluso o si è scandalizzato … non era per pregiudizio nei suoi confronti, ma solo per le mie incapacità.

Chiudo citando una canto che i ragazzi conoscono e che è stato il motivo della mia preghiera in questi ultimi giorni. Dice questo canto: “nulla rimpiango e molto ti ringrazio”. “Nulla rimpiango” è umanamente impossibile a meno di non aver incontrato qualcosa di più grande dei proprio limiti. Altrimenti uno rimpiange sempre qualcosa alla fine di un’esperienza.
“Molto ti ringrazio per tutto quello che ho potuto dare. Nulla mi manca quando in te confido, povero e solo chi non sa più amare”. Ci sono dei momenti (quando ci si lascia) nei quali si è più soli… anche da questi momenti è bene non fuggire perché possono contenere l’incontro con il Signore. C’è invece un’altra solitudine, che non è quella di non avere sempre la stessa gente attorno o gli stessi amici, ma è quella di essere chiusi da non saper allargare lo sguardo, da non saper vedere il mondo dove siamo o gli altri che ci stanno davanti… da non saper amare.

“Nulla rimpiango, molto ti ringrazio per tutto quello che ho potuto dare. Nulla mi manca quando in te confido povero e chi non sa più amare”.